PRIMA PARTE
MOLTO, MOLTO PRIMA DI QUEL MEZZODÌ
La gente la chiamava la zoppa
La gente di R. la chiamava la zoppa. Anche sua madre la chiamava la zoppa. Era stato il suo nome da subito, da quando la vecchia levatrice aveva mostrato la gamba sottile e il piede curvo ai genitori.
« Sei un temporale, figlia mia. un temporale » aveva sussurrato suo padre davanti al piede storto.
Così sua madre era rimasta senza respiro. Sapeva che non avrebbe potuto avere più figli, non avrebbe dovuto avere neanche quello. E adesso continuava a guardare la gamba storpia e maldestra mentre ascoltava il vociare della piazza che fremeva per vedere quella creatura, la figlia del sindaco di R. « Ho messo al mondo la disgrazia, l'ho messa al mondo io... » piangeva e si accarezzava la pancia dove la bambina era stata fino a pochi secondi prima. «Signore perché anche a noi! Perché!» gridò accasciandosi sul letto.
La vecchia levatrice disse che si doveva dare la polvere dolce. E con la prima poppata la disgrazia sarebbe finita addormentata in una piccola bara, assieme alle lacrime di tutti.
« E mia figlia, non posso » disse il sindaco.
« Tu conosci la regola » fece sua moglie.
« Non voglio » disse ancora.
La vecchia levatrice si calò una mano davanti agli occhi.
Quella gamba nacque a R., il paese della lana più pura che si fosse mai vista. una lana magica. Sottile e morbida, profumava di fiori. Bastava un velo addosso e il gelo toccava soltanto, un velo in più e l'inverno non sfiorava nemmeno. « Le greggi sono apparse da un giorno all'altro, le ha mandate il Signore dal paradiso » giuravano. « E la lana di ogni re e regina. » Si raccontava che al buio brillasse di un alone leggero e che i pastori tosassero i greggi all'alba mentre le donne pregavano. Le filatrici di R., poi, la intrecciavano come nessun altro creando forme eleganti per qualsiasi corpo. E ogni anno c'era un giorno in cui veniva celebrata: quel giorno R. si vestiva a festa e il suo Arco si apriva alla valle. Le genti venivano da ogni parte nel piccolo paese con la lana che era un miracolo di Dio.
Ma un mattino i pastori trovarono il gregge ucciso, morto avvelenato. Le pecore superstiti vagarono per giorni nel bosco e il loro belare gelava il sangue. Da quel momento la miseria scese su R. e la gente perse nell'armadio i suoi vestiti migliori. I visi erano pallidi, senza i belletti che coloravano le pelli slavate, senza i pendagli alle orecchie e al collo. Non c'era uomo o donna che non pregasse per un pezzo di pane in più. Per sopravvivere non rimase altro che vendere i frutti che la terra regalava. E aspettare. Aspettare che pian piano il gregge si ripopolasse. Così fu, ma la lana non era più quella di una volta. Accoppiando le pecore sopravvissute con pecore che chiunque poteva avere il miracolo si era spento e la purezza era svanita per sempre.
Appena nata, la zoppa fu avvolta proprio in un manto bastardo e la gamba restò segreta finché rimase confusa tra i veli della culla. Poi R. seppe, e reclamò la polvere dolce per addormentare quella creatura sfortunata.
« Non uscirà mai di casa » disse il sindaco. « Non esisterà se non per me e mia moglie » giurò al Consiglio del paese.
« Tu conosci la regola. »
« Voi sapete che mia moglie non può avere più figli. Sapete anche delle parole che mio padre ha lasciato prima di chiudere gli occhi. Lui ha dedicato la sua vita a R. » Porse quel foglio che loro conoscevano, dove una mano tremula aveva scritto: La purezza di R. è nelle sue donne, madri, mogli e filatrici. Per questo Dio ha affidato la sua lana a loro. Purezza vuole purezza. Che Nostro Signore voglia farmi un'ultima grazia: una nipote, che il figlio di mio figlio sia femmina, perché è della loro arte che R. si nutre.
« E' storpia, Jerome. »
« In memoria di mio padre. Non uscirà » giurò ancora.
Il Consiglio si ritirò per due giorni interi nella stanza delle Decisioni. Poi disse: « Non dovrà uscire, mai. Per R. non esisterà. Solo in ricordo di tuo padre, per il grande sindaco che fu ».
Così la zoppa crebbe, chiusa nella casa rossa che si affacciava sulla piazza. Se ne stava alla finestra del primo piano con le manine contro le guance scarne, e guardava chiunque passasse. Li vedeva camminare e loro sapevano che era lì. E quando qualcuno si fermava a fissarla, lei si schiacciava al muro, il piede curvo incastrato al polpaccio della gamba forte e le mani chiuse contro il viso, a pregare che quegli occhi le dessero tregua.
La sua finestra le mostrava anche le risa dei bambini. I bambini come lei, che cantavano le canzoni della scuola mentre si rincorrevano intorno alla fontana.
« Le hanno tutte e due forti, loro... » diceva sua madre le volte che la zoppa domandava di scendere a giocare. « Non la vogliono una gamba malriuscita. »
La zoppa rimaneva un attimo a fissarla. « Non vogliono neanche Nunù che ha tutte e due le gambe forti. »
« Nunù è strano come suo padre, per quello non lo vogliono. Quelli come lui non sono fatti per vivere assieme alla gente, sono fatti per stare da soli nel bosco e basta. Sono matti quelli! » E i ferri tornavano a intrecciare. Intanto la zoppa si era già voltata verso quel bambino più magro degli altri, fermo in un angolo della piazza. Ogni tanto saltellava su se stesso. Si chiamava Nunù e viveva in una baracca al limitare del bosco di R., lui e il padre taglialegna. In paese non veniva quasi mai, ma qualche volta sbucava quando meno te lo aspettavi, sbirciava appena e poi correva di nuovo via.
Neanche Nunù andava a scuola. Lui non aveva mai visto un libro e nemmeno un maestro, le aveva detto sua madre. L'unica cosa che faceva era raccogliere la legna spaccata da suo padre. Solo quello. Parlava a malapena e ci mancava poco che fosse matto davvero.
« E matto, papà? » domandava la zoppa.
« No, ha solo molta paura » rispondeva il sindaco.
Poi una notte di quell'inverno l'urlo di Nunù riempì ogni casa. Gridava e gridava mentre correva per la piazza. La zoppa si era svegliata di colpo ed era saltata senza stampella alla finestra: lo aveva visto con le mani nei capelli che ululava, che si buttava a terra e ruzzolava tra i ciottoli bianchi morsi dal gelo. Allora le finestre di R. si erano accese una dopo l'altra e pian piano alcuni uomini tra cui suo padre erano scesi a calmarlo.
Alla zoppa dissero che il padre di Nunù si era addormentato davanti a un piatto di minestra. Addormentato e mai più svegliato.
Da quel giorno Nunù non lasciò più la piazza. Guardava i bambini e la sera si stendeva in terra a dormire. Si rannicchiava vicino alla fontana, senza curarsi del vento freddo che arrivava dalle montagne.
« Nunù muore! » diceva la zoppa ogni sera prima di andare a letto, mentre lo spiava dall'alto. « Muore per il freddo! » e tirava per la giacca suo padre dietro di lei alla finestra.
« Lascia stare le disgrazie che non hai» rispondeva sua madre mentre la portava in camera.
Ma Nunù non morì.
Lo salvò il padre della zoppa. Scese le scale quando l'inverno iniziava a crescere e sotto gli occhi della figlia lo condusse nella sua casa.
Fu allora che la zoppa lo conobbe.
Nunù la guardava sempre in quel punto, nella gamba debole mezza nascosta. La zoppa rimaneva ferma, quasi paralizzata per quegli occhi che insistevano. A volte con una mano cercava di allungarsi la gonna e il piede curvo saliva e si nascondeva lassù, la statua di un fenicottero sull'acqua.
Lui si sedeva al centro della stanza, a fianco della madre della zoppa. Mangiava qualsiasi cosa raccattasse e con un solo morso. Poi masticava e si voltava a sorridere mentre dalle labbra gli usciva quella poltiglia mista a saliva. All'improvviso scattava in piedi a saltellare, e si toccava il naso una, due, tre volte biascicando parole incomprensibili.
« Siediti! » gli gridava la donna.
Nunù non l'ascoltava, si metteva a correre e girava attorno al tavolo sepolto dai gomitoli di lana sbagliata.
« Tutti lo dicono, è la casa della disgrazia questa. E questo qui è matto per davvero. E matto! » imprecava la donna e andava a buttarsi sul letto.
« Siediti Nunù, siediti » gli diceva la zoppa con la voce che quasi non si sentiva.
E lui si sedeva, gli occhi in fondo alla gonna verde di lei, dove il tallone della gamba forte spuntava.
« La casa della disgrazia. » Ormai erano molti i giorni che la madre della zoppa lavorava ai ferri in camera sua per non avere più il dolore davanti alla faccia. E la sera quando il sindaco rientrava, lei gli urlava e urlava contro. Ma lui non faceva niente, non diceva niente. Ascoltava la voce di sua moglie uguale a tutte quelle del paese, diceva: « La casa della disgrazia di R. ».
La madre della zoppa diceva che quella mezza gamba sopravvissuta era il segno che di R. presto non sarebbe rimasto più niente. Dio li aveva già privati della purezza della Sua lana, non aver rispettato la regola della polvere dolce era l'affronto che li avrebbe mandati in malora del tutto.
La zoppa e Nunù il matto la sentivano dalla stanza della finestra, la sua voce era un lamento senza fine. Ogni tanto si affacciava all'improvviso sulla porta e chiamava la zoppa a sé, l'accarezzava sulla testa, dolce: «Bambina mia, mi dispiace. Che male puoi aver fatto tu? Che male? Mi dispiace... » le diceva.
Allora la zoppa andava alla finestra e si faceva tutt'una con il vetro, le mani alle orecchie e gli occhi bagnati.
« La zoppa non piange più, non piange più » le diceva Nunù scuotendola un poco. « Guarda zoppa, guarda! » e il matto le indicava quella figura piena di fretta in mezzo alla piazza. un uomo robusto con la barba rossa, camminava veloce e intanto faceva dondolare dal pollice un mazzo di chiavi molto pesante. La gente lo chiamava l'orologiaio. Per la zoppa e Nunù era il maestro delle campane.
«E' in ritardo! » diceva la zoppa quando vedeva che l'orologio della piazza aveva fatto scoccare l'ora e la campana taceva.
« E' lento » ripeteva il matto e fissava le lancette sulla torre, due spade affilate su un cerchio bianco contornato da numeri neri e spessi.
Poi aspettavano uno a fianco all'altro, spiavano l'uomo mentre infilava una chiave nel grosso portone della torre. E quando il portone si apriva e l'orologiaio entrava, la zoppa spostava la testa per vedere meglio ma non vedeva niente là dentro. Solo buio. Allora gli occhi tornavano all'orologio che segnava le dodici e due minuti, e là si bloccavano.
« E' in ritardo, il maestro delle campane è in ritardo » diceva Nunù. E quando la campana cominciava a suonare anche il matto si fermava, come lei, come tutti a R.
Durante il giorno il portone della torre si apriva quattro volte. L'orologiaio andava a suonare le sette della mattina, mezzodì, le sei e le dieci della sera. Quelle erano le ore di R.: il lavoro, la tavola, la casa, il riposo. Alla zoppa e a Nunù lo aveva detto suo padre e aveva anche spiegato che un tempo per la festa della lana magica i rintocchi erano ancora più forti e duravano ancora di più. Suo padre aveva raccontato che d'un tratto la lana aveva perso la magia ma che la festa si era continuata a fare lo stesso.
« E se il maestro delle campane non suona bene alla festa? » aveva domandato la zoppa.
« Lui suona da quando è bambino e non c'è nessuno bravo come lui in tutto il mondo. »
« Da quando era bambino? »
« Suo padre era il vecchio orologiaio di R. Gli ha insegnato lui a suonare. »
« E il figlio del maestro delle campane suona anche lui, papà? »
« L'orologiaio non ha figli, insegna a leggere e scrivere ai bambini della scuola ma nessuno di loro vuole fare l'orologiaio. »
« E difficile fare l'orologiaio? »
« Bisogna essere più veloci dell'orologio. »
« Qualche volta lui è più lento! »
« Più lento...» disse Nunù mostrando i denti tutti storti.
La zoppa saltellò sulla gamba forte, si appoggiò a suo padre: «E se l'orologio della piazza non dice il tempo giusto? » domandò prendendo la stampella. Poi si avvicinò ancora di più al vetro della finestra.
« L'orologiaio lo controlla sempre, controlla le lancette, controlla la campana, controlla tutto! » Il sindaco finì di parlare che il maestro delle campane era già al centro della piazza. «Lo controlla anche dalla finestra della scuola... »
«Din don din don! » gridava Nunù.
La zoppa si aggrappò al braccio di suo padre. Ancora un saltello e gli si aggrappò alla spalla, si strinse e rimase sospesa. Poi alzò lo sguardo al quadrante bianco del grande orologio che in quel momento segnò le dieci. Lasciò che la gamba debole toccasse terra. «Perché, perché io non ci posso andare alla scuola, papà? »
Suo padre non rispose a quella domanda di ogni giorno. Chiuse il coperchio dell'orologio che fece scivolare in tasca, poi si incantò a guardare il portone socchiuso della torre.
« Perché? »
Si chinò appena.
« Perché non ci posso andare? »
Ne avrebbe parlato al Consiglio, pensò. Subito, già l'indomani.
Intanto la campana si mosse, e i rintocchi del riposo scesero su R., entrarono e spensero le case.
Si schiarì la voce. E loro lo fissarono, gli occhi attenti alla mano che lisciava un baffo. Era entrato nelle case che ancora non era l'alba.
« Si riunisce il Consiglio » aveva detto.
Così erano usciti con gli occhi mezzi chiusi e con il passo veloce, in fila come grosse formiche ordinate ai piedi dei muri. Avevano seguito il sindaco per la via delle botteghe fino alla casa accanto all'Arco, poi nella stanza al piano di sotto.
« Buongiorno... » aveva detto lui mentre prendevano posto. Poi aveva scorso velocemente la stanza delle Decisioni. Le sedie tutte uguali arrivavano fino al grande tavolo coperto solo dello stemma di R. ricamato su della lana viola, due chiavi dorate legate da un filo di lavanda azzurro. I ritratti degli antichi sindaci spiccavano sulle pareti ocra, un'aura leggera di colore chiaro li circondava.
« Dicci, Jerome, dicci » fece una voce dal centro della stanza.
Il sindaco rimase in piedi, appoggiato di schiena al tavolo. Fissò in fondo il grande crocifisso in legno di noce, il Cristo morente con gli occhi al cielo.
« Buongiorno, Jerome. »
Si aggiustò gli occhiali e tenne lo sguardo appena sopra quei visi attenti, quelle bocche dritte e schiacciate.
« Cosa volevi dirci? Cosa? »
Abbassò la testa di un poco, e li vide bene. Sentì che la camicia stringeva troppo al collo, così slacciò il primo bottone che picchiava contro il cravattino. Pensò a quindici anni prima quando li aveva convinti che lui era l'uomo giusto per proseguire l'opera di suo padre, il grande sindaco che aveva reso R. puro come la sua lana.
« Cos'hai da dirci, Jerome? » ripeté il fornaio Saliou grattandosi la barba rada.
« E per i gendarmi? » fece Joanne, la vecchia filatrice.
« Quali gendarmi? » domandò Bulbon mentre si voltava verso il Consiglio.
« I gendarmi di Lacroix, li hanno visti nei pressi dell'Arco due sere fa » continuò Saliou.
« I rossi di Lacroix? Maledetti! Maledetti! Hanno avvelenato le nostre pecore! » Quell'uomo piccolo piccolo e senza capelli batteva con stizza il pugno della mano destra sul palmo della sinistra. Era Bulbon, uno dei maestri della scuola. «Maledetti, da noi vengono! Non mi importa se sono considerati i migliori gendarmi della valle... A R. non ce li voglio! » Si alzò in piedi, la giacca gli arrivava alle ginocchia.
« Li hanno visti solo passare, Bulbon » disse Saliou.
« E tempo che R. reagisca » esclamò la vecchia filatrice.
« Chiudiamolo come in passato, chiudiamo l'Arco! » gridò Bulbon.
Il sindaco tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto e chiuse gli occhi. Sentì il fresco del cotone, si asciugò il naso e le guance: « Dobbiamo tenerlo aperto per sperare di vendere ogni giorno la nostra lana bastarda... Ogni giorno... e anche alla grande festa la venderemo... La lana di R. non è più la lana dei re, ora è come tutte le altre: chiudere l'Arco vorrebbe dire morire di fame. »
« Ma i rossi non li voglio vedere! Sono stati loro ad avvelenare le nostre pecore! »
« Questo non lo puoi sapere » lo interruppe Joanne.
« E comunque sono stati i primi a dire che la nostra lana aveva perso la sua purezza» Bulbon ora stava tra Jerome e il Consiglio, la testa che arrivava al petto del sindaco.
«Siedi Bulbon, siedi» fece Saliou a mezza voce e intanto fissava Jerome.
Bulbon lo ascoltò. Poi alzò la testa verso Jerome e si aggiustò il cravattino un po' storto.
« Ti capisco, Bulbon » disse il sindaco. « Ma non sarà mettendo alla porta quattro gendarmi che il lustro tornerà... » Si interruppe. Si lisciò i baffi ancora una volta: erano così lunghi che quando li stirava tra il pollice e l'indice gli toccavano il centro della guancia. « Non è per questo che vi ho convocati... » Lo disse tutto d'un fiato, la testa bassa.
« Per quale motivo allora? »
Se li immaginava come nei sogni, di notte. Erano bestie affamate con la bava tra i denti, lo avevano accerchiato. Lo circondarono e stavano per azzannarlo, le loro zampe piegate prima di saltare. Ma non lo facevano mai, non saltavano. Rimanevano lì, con la ferocia tra i denti accesi di giallo.
Jerome sollevò lo sguardo. Saliou lo fissava e con la mano si tormentava il mento.
« Parla, Jerome... E successo qualcosa? » domandò la vecchia filatrice.
« Parla » insistette un'altra voce.
« E per mia figlia. » Il sindaco si appoggiò al tavolo e con le dita grattò la lana fina dello stemma.
Lì avanti non si muovevano.
La mano di Saliou si arrampicava fino alla testa calva. « Tua figlia? » fece e si lasciò andare sullo schienale.
«Mia figlia... Ha otto anni... » Si bloccò e guardò la gamba accavallata di Bulbon che vibrava. « Ha il desiderio di andare a scuola. »
« Non puoi chiedercelo. »
« Quattro ore in tutto il giorno » aggiunse Jerome.
Fuori i passi dei gendarmi di R. sbattevano contro la ghiaia.
« Anche un solo minuto » si schiarì la voce Joanne, «... anche un solo minuto, sai di cosa sto parlando.»
« Tu sai qual è il punto, Jerome » disse Bulbon voltandosi verso Saliou.
« Il fatto è che lei non può. Conosci meglio di noi il pensiero di R. e le sue regole. » Era la moglie del fornaio. Le braccia incrociate e grasse uscivano dalla mantella rossa. Gli occhi piccoli erano puntini neri nel viso tondo colorato di belletto. « Era la regola e tu quando è nata non l'hai rispettata. R. ti ha fatto la grazia in memoria di tuo padre. E poi tu giurasti "Non uscirà", l'hai giurato, e non vuoi mantenere neanche questa promessa. »
« Se foste in me voi... »
« Non siamo in te perché chi ha avuto disgrazia ha dato la polvere dolce » fece Saliou e lo sguardo azzurro cercò quello chino di Jerome.
« La polvere dolce » ripeté il sindaco.
« La polvere dolce per salvare la purezza. » Padre Carl teneva le braccia conserte. I suoi capelli color miele erano l'unica peluria di un viso glabro e lucido.
Così Jerome rivide suo padre che alzava la mano, il braccio che per l'età tremava. Il primo a votare la polvere dolce, dopo lui tutto il Consiglio. «La lana è la purezza di R., e questa purezza deve abitare ovunque. Nelle case, nelle strade. Negli uomini, nelle donne, nei bambini. Da oggi R. sarà puro come mai lo è stato» aveva detto il grande sindaco tra gli applausi.
« Tu sai del mio primo figlio, Jerome » aggiunse la moglie di Saliou.
« Finora sette cartocci di polvere dolce abbiamo consumato. Ma questo era il volere di R. » Padre Carl stringeva il crocifisso d'oro, gli occhi grigi si aprirono e un bagliore li fece vibrare.
« Ma lei adesso c'è. E nella mia casa e io voglio... »
« La tua casa ormai è di una gamba malata e di un matto. E di una donna disperata che non ti riconosce più. Entra nella testa di tua moglie, Jerome. Hai offeso lei, noi, la purezza del Signore. » La veste del prete si aprì e frusciò. Da lì uscirono per un istante le mani morbide e bianche.
Jerome non disse nulla. La mano in tasca rigirava l'orologio che R. gli aveva donato. «Capisco...» e fissò il Consiglio come fosse un'unica persona.
« Vorrei che il Consiglio mi ascoltasse. » un braccio sottile si alzò sfiorando la spalla di Bulbon. «Chiedo solo un istante » disse una voce. Era Marie la bottegaia. Il sorriso abbozzato le formava due piccole fossette sulle guance magre e pallide.
Jerome si voltò e il Consiglio con lui.
Occhi grandi e verdissimi bucavano la frangia ordinata.
« Parla » fece Saliou.
« Parla, Marie » ripeté Bulbon.
« Ecco, esiste un altro modo per risolvere la questione. » Marie si interruppe e per un istante alzò gli occhi al sindaco.
« Un altro modo è dare ora quella polvere dolce che non fu data un tempo » mormorò Joanne la vecchia filatrice.
Marie si voltò di colpo. La donna aveva le palpebre a metà e aspettava che lei parlasse.
«Diccelo allora. Marie, diccelo anche a noi questo modo! » fece la moglie di Saliou.
« Se la bambina non può andare a scuola, qualcuno dei maestri troverà il tempo di passare ogni tanto a casa sua. »
« Vorrei, cara Marie, ricordarti che in quella casa c'è anche il matto » fece Saliou.
« A un bambino strano non farà male un po' di scuola » disse la bottegaia.
« Ai matti può far male anche la scuola ! » esclamò la moglie di Saliou.
« Non lo credo » fece Marie. Poi guardò Jerome.
« Io sì, invece. Tu cosa pensi, Bulbon? » chiese Padre Carl socchiudendo le palpebre.
« La mattina no e di pomeriggio... » fece una smorfia con le sue labbra umide «... di pomeriggio assisto mia madre. »
« C'è l'altro maestro » disse Marie.
« L'orologiaio? Non accetterà mai una decisione del Consiglio » fece la vecchia filatrice e un riso le attraversò la voce.
«Parlerò io con lui se il Consiglio lo vorrà» disse Jerome.
Bulbon sbuffò.
« Non ci resta che votare » disse Marie. « Alzi la mano chi è a favore. »
«No, Marie... » fece Saliou.
«No! » esclamò la moglie del fornaio.
Si sollevarono alcune mani. L'ultima fu quella di Jerome.
« Così sia, l'orologiaio andrà a far scuola a casa di Jerome » sentenziò Marie dopo che le ebbe contate.
« Così sia » ripeté il sindaco.
La porta della stanza delle Decisioni si aprì e la prima a correre fuori fu la moglie di Saliou. « una zoppa e un matto che leggono e fanno di conto! » strillava.
Dopo di lei uscirono tutti. Marie si attardò. Sorrise a Jerome: « Parla con l'orologiaio » sussurrò.
« Lo farò » disse il sindaco e ricambiò il sorriso. Poi aprì l'orologio, mancavano dieci minuti ai rintocchi delle sette.
Aveva poco tempo.
Fu così che la zoppa vide suo padre con il passo svelto. Quasi correva attraverso la piazza e con la mano si teneva ben stretto il cappello che provava a volar via.
« C'è papà! » disse alla finestra con le mani in bocca.
Laggiù i ciottoli bianchi erano striati dai colori che dipingevano R. di prima mattina, macchie frettolose che scomparivano nelle vie animate.
La zoppa guardò i bambini andare alla scuola. Disse ad alta voce chi mancava: la bambina bionda con le trecce e il bambino più piccolo di tutti che portava i quaderni sotto il braccio. Poi si accorse del figlio del fornaio Saliou, si chiamava Marcel. Teneva le mani in tasca e il suo viso paffuto restava alto a guardarla alla finestra, mentre alcuni dei suoi compagni lo imitavano, gli indici puntati alla casa del sindaco. « Via, andate via » disse lei nascondendosi dietro una tenda. E con la coda dell'occhio continuò a sbirciare le bambine che si tenevano per mano e certe di loro cantavano e avevano capelli lucidissimi intrecciati con lacci. Erano eleganti, le calze grosse e bianche, e la mantellina con i fiori disegnati al centro. « Hai visto Nunù come sono bellissime... » faceva la zoppa con il dito al vetro. Ma lui non le guardava nemmeno le bambine della scuola. Nunù il matto aveva occhi solo per l'orologiaio e per i gendarmi. Li scrutava che passavano sui loro cavalli e poi restava in silenzio. Qualcuno di loro portava il cappello con le strisce bianche. E avevano la divisa dieci volte più blu del cielo e gli stemmi che al sole erano tanti luccichii. Alla cintura poi pendeva la spada: non tanto lunga, ma il suo argento brillava più del sole ed era così affilata che potevi tagliarci anche cento alberi di fila.
« Papà... è... è alla torre! » esclamò la zoppa stupita.
Sua madre saltò in piedi dalla poltrona verde e smise di lavorare alla lana. Si sistemò dietro a loro e appoggiò il viso al vetro. Le sue rughe cerchiavano gli occhi scurissimi e venati. « No, Jerome, no... »
Laggiù il sindaco era fermo davanti al portone del grande orologio, il cappello tra le mani. Si lisciava i baffi e aspettava.
«Il maestro delle campane arriva adesso... » farfugliò il matto indicando l'orologio che segnava due minuti alle sette. « Arriva e suona ! »
E così fu. Il vecchio entrò nella piazza poco dopo, la barba porpora e le chiavi che ballavano nelle mani tozze. Era una macchia sbilenca rossa e bianca e marrone. La barba fuggiva a destra e a sinistra e la punta della testa pelata rifletteva la luce della mattina.
Il sindaco gli andò incontro.
« Il maestro delle campane gli dice i segreti dell'orologio. » Nunù cominciò a saltellare alla finestra.
« Jerome... Cosa vuoi da lui...» La donna scansò il matto con una manata.
Nunù finì contro la stampella, nell'angolo della stanza. Subito si toccò il naso, tre volte. E si rizzò in piedi. Trovò spazio a fianco della zoppa che saltellò verso la madre.
« Non guardare, tu. » La donna spinse anche lei e appena la vide cadere, restò impietrita. Poi le disse: «Eri qui, eri qui dentro, così piccola e buona... Ti dicevo Dormi adesso, te lo dicevo la sera e così ci addormentavamo insieme ».
« Mamma, mamma. » La zoppa saltò, le si aggrappò e intanto schiacciava la testa sul ventre. «Mamma...» E per un attimo sua madre non guardò più il vetro, le mise due dita sulla testa, l'accarezzò appena.
Laggiù il sindaco salutò l'orologiaio senza parlare. Un attimo e il vecchio girò la chiave nella serratura, aprì il portone.
Suo padre non lo seguì, rimase tra il fuori e il dentro. Non si mosse neanche quando la campana cominciò a suonare le sette, l'ora del lavoro.
« Ma cosa vorrà da Gustave » mormorò la donna e in quell'istante l'orologiaio uscì dalla torre.
Il sindaco estrasse la sua pipa di legno. Con un sol gesto l'accese, mentre le mani del vecchio riparavano il fiammifero. Ora parlavano. L'orologiaio aveva gli occhi alle scarpe. Fece sparire il grosso mazzo di chiavi nei pantaloni larghi.
« Cosa si dicono mamma? »
Sua madre non rispose.
«Il maestro delle campane dice i segreti dell'orologio. » Nunù rispose per lei ma non finì la frase che il vecchio iniziò a scrollare la testa e il sindaco a lisciarsi i baffi. Poi l'orologiaio alzò il viso e mentre ascoltava si girò alla finestra.
« Ci guarda, ci guarda! » fece Nunù il matto saltellando con le mani al naso. « Ci ha visti! »
« Zitto, Nunù. » La zoppa si era abbassata. Quando fu di nuovo alla finestra, il vecchio e suo padre si strinsero la mano mentre una piccola nuvola di fumo uscì dalla bocca del sindaco e li avvolse.
« Guai a lui» sibilò sua madre allontanandosi dalla finestra e sbattendo la porta della camera da letto.
La zoppa e Nunù fissarono l'orologiaio che si allontanava dalla torre. Ogni due ciottoli il vecchio metteva giù il piede che non poggiava mai il tallone. Quando arrivò alla fontana si fermò: allungò un braccio sotto il getto fresco e se lo portò al viso. Scrollò la testa una, due volte. E prima di ripartire sbirciò la finestra. Restò a guardarla mentre si portava un fazzoletto sulla fronte, sulle guance.
Nunù si mise a correre per tutta la stanza, attorno al tavolo dei gomitoli e alla poltrona verde. «Il maestro delle campane ci ha visti! Ci ha visti! » urlava e rideva e andò dalla zoppa. Lei se lo trovò di fronte, i capelli castani corti sulla fronte, gli occhi da gatto verdissimi e tondi. La bocca spalancata, i denti storti e un po' marci e più giù la voglia marrone che da sotto l'orecchio arrivava a metà del collo sottile. Il segno della pazzia, per sua madre e per R.
Lui non smetteva di fissarla dove spuntava la gamba forte.
« Non la guardare Nunù, non la guardare ti prego... » disse la zoppa e nel frattempo lo scuoteva sulla spalla. « Non la guardare. » Si mise le dita sugli occhi.
« Ti prego » fece ancora.
Nunù il matto allora la accarezzò, poi l'avvolse con le sue mani, la strinse forte. La tenne così, e l'odore leggero della pelle di lei gli entrò dentro. Sapeva di fiori, di lavanda e anche di miele.
« Nunù » disse lei con il respiro che mancava per la stretta.
« Ci ha visti... Il maestro delle campane ha visto Nunù e la zoppa! » fece il matto con la risata che sporcava le parole. Poi lasciò la presa e continuò a guardarle le lentiggini che dal naso si allargavano fino al mento appuntito. Erano granelli piccolissimi e si mischiavano con altri granelli più grandi che arrivavano fin dove le ossa segnavano la pelle.
Lei sorrise. « Sei proprio matto » disse poi girandosi verso il vetro. Si asciugò gli occhi, e vide suo padre venire.
Appena più tardi lui entrò.
Il sindaco salì al piano di sopra e senza salutarli si ritirò nella camera da letto. Bisbigliò qualcosa e subito i ferri di sua madre smisero di ticchettare.
La zoppa disse a Nunù di non muoversi. Dovevano stare fermi e non fare nessun rumore se volevano ascoltare.
« Nunù fa silenzio» sibilò lui. E per primo andò a origliare. Le fece cenno di seguirlo, l'indice davanti alla bocca chiusa.
Lei lo raggiunse e adesso erano vicini alla voce di suo padre, al silenzio di sua madre.
« No! » Un grido squarciò la porta chiusa. «Perché l'hai chiesto!?»
La zoppa corse alla finestra, i palmi schiacciati alle orecchie.
« Non possiamo, Jerome. Non possiamo! »
Nunù rimase a origliare e quando la porta si aprì, l'uomo inciampò nel bambino accovacciato. Il matto cadde.
Si guardarono.
« Il maestro delle campane ha visto Nunù e la zoppa » disse sorridendo.
Il sindaco lo afferrò sotto braccio e se lo caricò addosso. Lo portò nella stanza della finestra. Lo mise giù e restò a fissare la figlia che non si voltò verso di loro. Si avvicinò e le appoggiò una mano sulla testa, la baciò sulla guancia rigata di lacrime. « Una sorpresa, per te e per Nunù. » Gli occhi erano grandi e brillavano.
« Perché mamma si è arrabbiata? » La zoppa strisciò il viso sulle maniche della camicetta. Il suo collo sottile ondeggiava, svelando l'inizio della spina dorsale che grattava contro la pelle. Teneva il busto piegato e il corpo era attraversato da un fremito che dalla schiena arrivava fin giù, al tallone che si alzava e abbassava dentro il minuscolo zoccolo di legno.
« C'è una sorpresa per voi» ripeté il sindaco e le strinse le spalle appuntite. Come lei, anche lui guardava fuori. Macchie disordinate sporcavano il bianco dei ciottoli, entravano nelle case, si intrufolavano nei vicoli stretti come bisce leste a rintanarsi.
« Una sorpresa, papà? »
« L'orologiaio sarà il vostro maestro » disse e all'improvviso la sollevò.
Lei aspettò un attimo. «Il maestro... Il maestro delle campane, il maestro...» Gli si buttò al collo e le sue gambe per un istante si scoprirono fino al ginocchio. Con una mano gli rimaneva aggrappata e con l'altra provava ad arrampicarsi sul petto di suo padre. Strofinava il viso al fianco e respirava fortissimo contro la giacca e poi ancora sul braccio.
« Sì, il maestro delle campane verrà da voi. » Lo sguardo del sindaco andò dove la gonna era salita. Il piede debole era dentro una calza di lana fine che svelava le curve stonate. Era un bastone curvo e gracile: un osso sottile con poca carne molle e raggrinzita. E il ginocchio un sasso appuntito con due buchi ai lati e la pelle rugosa che pareva staccarsi in un attimo. Ogni volta che la fissava i suoi occhi rimanevano incollati. Faticava a staccarsi da quella gamba malriuscita sangue del suo sangue.
« E quando viene, quando viene il maestro delle campane? Domani? » Lo baciava vicino all'orecchio e intanto si scuoteva in braccio a lui.
« Uno di questi pomeriggi. »
« Hai sentito Nunù? Il maestro delle campane viene in questa casa! »
Il matto aveva un dito nel naso e intanto cantava una specie di canzone che già altre volte la zoppa aveva ascoltato. Le parole c'erano ma non avevano un senso, trascinate e convulse.
« Nunù! Viene il maestro delle campane! » ripeté lei. Poi gli si avvicinò e quando lo toccò lui scattò in piedi e iniziò a correre su e giù per la stanza.
Il matto arrivò di fronte al sindaco che se ne stava con la pipa spenta tra le mani a fissare la fotografia sopra la cassapanca, quella di lui e di suo padre alla festa di R., tanti anni prima. Schiacciò forte il viso contro un fianco dell'uomo e lo abbracciò. Cantava con la bocca che si apriva e chiudeva contro il raso del panciotto.
« Chi te l'ha insegnata questa canzone? »
Nunù non rispose, fece chinare l'uomo e gli strizzò il naso con due dita: « Il papà di Nunù » disse poi.
« E cosa dice? » fece il sindaco con la voce chiusa per quelle dita che gli strizzavano le narici.
Lui cantò a voce più alta. « Dice di Nunù che vuole andare via. »
« Andare via? E dove? » fece il sindaco e gli portò via la mano dal viso.
« Dove non ci sono gli uomini che guardano. » Si buttò sulla poltrona.
La zoppa andò alla finestra. «E le bambine della scuola vengono qui con il maestro delle campane? »
Suo padre guardò attraverso il vetro. « Vengono quando tu diventi brava come loro. »
« Le bambine non le vogliono le zoppe, non le vogliono neanche vedere. » Sua madre entrò nella stanza e andò vicino alla figlia. « Lo capisci? » Non urlò e la voce roca uscì fievole, gli occhi erano socchiusi. Sollevò la testa e fissò la zoppa che si era aggrappata alla giacca di suo padre. « Lo capisci? » Si aggiustò lo scialle ricamato che le sfiorava le ginocchia. Poi uscì dalla stanza e il rumore dei passi sprofondò.
Lassù, il grande orologio segnava le otto e cinque della mattina.
« Volete ballare con me, mia regina? » le domandò.
« Si. »
Allora la strinse, la portò in alto. Iniziò a dondolare, a girare in tondo. Nell'orecchio le canticchiava la canzone della banda, quella che faceva danzare tutto R. nei giorni felici.
La zoppa rideva e rideva, una mano alla gonna che provava a salire per tutti quei balzi. Metteva il naso dietro l'orecchio di suo padre e respirava quel profumo di morbido e di caldo. « Sono una regina! »
« Sei la mia regina. »
« E l'ora, Nunù » disse la zoppa.
« Nunù non ha sonno » disse il matto.
Fuori c'era il buio, e con il buio R. diventava le luci delle candele che incorniciavano la piazza. Uno dopo l'altro, quei piccoli fuochi arrivavano anche nella via delle botteghe e fino all'Arco. Uno ogni cinque passi lunghi, questa era stata la decisione del Consiglio.
Di notte, le luci minuscole diventavano gli occhi della zoppa e le mostravano le ombre che si muovevano leste dentro l'oscurità di R. Una volta lei e Nunù avevano visto persino i rossi di Lacroix. Erano quattro, avevano camminato lenti per la piazza e avevano guardato le persone e le case ben curate, poi si erano infilati nella via della scuola. Non c'erano solo quelli di Lacroix mischiati alla notte. C'era anche Bulbon, il maestro dalle gambe corte. E appena compariva, la zoppa e Nunù si appiccicavano al muro e con un occhio lo spiavano che si affrettava verso la casa bianca che faceva angolo con la piazza e la via della scuola: la casa di Marie la bottegaia. E lì rimaneva, a bussare e qualche volta a parlare con lei dalla finestra. Non entrava mai, solo, ogni tanto. Marie scendeva ad aprire la porta e lui dalla giacca tirava fuori qualcosa, un fiore diceva Nunù. Poi una notte il matto aveva visto il gendarme biondo. Era successo quando tutti dormivano. Tutti tranne Nunù, che aveva deciso di contare le piccole candele: aveva contato quarantacinque lumi, e un gendarme alto che col cappello in mano aspettava davanti alla casa bianca. Così il matto aveva svegliato la zoppa e l'aveva portata al vetro. « E' entrato! » si erano sussurrati. Spiarono per due notti. Poi mai più, perché le regole erano chiare, nella casa del sindaco come in tutto R. All'ora del riposo, le dieci in punto, la giornata si spegneva.
« E' l'ora del riposo! » ripeté lei e lo trascinò via da lì.
« Nunù non ha sonno» ripeté il matto, ma questa volta ubbidì.
E subito ascoltarono i passi che dal piano di sotto salivano. La madre della zoppa sparì nella camera da letto. Il sindaco si fermò di fianco al tavolo. «Ecco», si piegò e prese dal comò la coperta blu e il vecchio pigiama logoro. Li appoggiò sulle gambe del matto già rannicchiato sulla poltrona verde.
« Dormi Nunù, e non urlare quando sogni. » La zoppa lo baciò sulla testa.
Lui aprì un solo occhio e spalancò la bocca.
Suo padre la chiamò. Aspettava con il lumino in mano, alla porta della camera.
Lei zoppicò fin lì. Raggiunse l'armadio, si tolse lo scialle leggero, la camicetta, lo zoccolo. Si allargò la gonna, e la lasciò scivolare sul pavimento. Tenne sempre lo sguardo alto, alle ante dell'armadio davanti a sé, anche quando si infilò la camicia da notte che strisciava a terra. Poi come le aveva detto sua madre si inginocchiò e riferì tutto al crocifisso: la giornata, i pensieri e chiese il perdono. « Papà » disse con un filo di voce quando finì.
Allora il sindaco entrò e con lui il bagliore del lume. La zoppa era già stesa, e la coperta sopra di lei le inghiottiva il corpo.
Le baciò la fronte come ogni sera e si sedette sul bordo del letto.
« I capelli» fece lei. La sua testa sprofondava nel cuscino che le incorniciava il viso. Gli zigomi le segnavano gli occhi grandi.
Con il gesto veloce di sempre le sciolse lo chignon. I capelli si liberarono, lunghi e nerissimi. Lui glieli lisciò, una, due, tre volte e tratteneva il pianto.
« Papà? »
« Cosa c'è? »
« Viene presto il maestro delle campane? »
« Si, viene presto. »
«Cosa gli hai detto per farlo venire da me e da Nunù? »
Suo padre si tolse gli occhiali, si strofinò le palpebre. «Gli ho spiegato che tu sai già leggere e che un po'"scrivi... che sei bravissima. »
« E se poi il maestro mi fa andare con le bambine della scuola e loro non mi vogliono? »
« Non devi pensarlo. »
« Mamma ha detto che... »
« Mamma dice che leggi molte frasi e dice anche che sai già scrivere più di dieci parole. »
Rimase zitta, poi tutto d'un fiato: « Perché lei è sempre triste papà? »
Le baciò la fronte. « Perché è stanca. »
« Stanca? »
La luce del lume si stendeva sulle pareti della stanza. Andava alle spighe di lavanda secca appese a fianco della finestrella, allo specchio e alla tinozza con l'acqua sopra un piccolo comò. Lì c'era una spilla d'argento appartenuta a sua nonna, per un momento brillò.
La zoppa aggiustò il cuscino alla spalliera in ferro e si tirò su. « Che cos'ha mamma? » Si tolse i capelli dagli occhi.
Suo padre appoggiò il lume sul comodino, poi si alzò e uscì dalla stanza. Ritornò subito e chiuse la porta. Il letto scricchiolò sotto il suo peso. « Guarda. » Aveva in mano una vecchia immagine, tutta ingiallita. « Guarda, bambina mia » e indicò una fotografia.
« Sei tu! » fece lei con gli occhi che sgranavano.
« Si... E questa è lei... tua madre. »
Restò silenziosa. «Mamma». Era bellissima. Aveva un vestito bianco che saliva fino al collo. In mano teneva ben stretto un ombrello chiuso, invece le altre donne della fotografia il loro l'avevano aperto per il sole. Il cappello un po'"di sbieco non era grande, ma di una forma strana, fissato sotto il collo da un nastro chiaro. I capelli erano legati e solo due ciuffi lunghi le cadevano di qua e di là sulle guance che erano lisce, di velluto come tutto il viso. E non c'erano rughe e pieghe sulla fronte e sul collo, solo gli occhi grandi e un po'"allungati, occhi che accompagnavano le labbra sottili in un sorriso che si sforzavano di trattenere.
« Qui non è stanca. »
« E felice. »
« Papà? »
« Cosa c'è? » disse suo padre mentre la copriva.
« Perché il maestro delle campane non c'è nella fotografia? »
Lui abbassò la fiamma del lumino, si avvicinò al suo viso. «Era nella torre, suonava la campana.»
La zoppa se lo immaginò. Vide l'orologiaio appeso alla fune che suonava e suonava mentre fuori dalla torre si festeggiava. Poi sentì suo padre che la baciava e un po'"la stringeva, si voltò e lo osservò varcare la soglia assieme alla luce debole che teneva in mano.
Aspettò e la casa tacque, poi si sedette sulla sponda del letto. Adesso sentiva più forte quel pensiero, non se ne andava, ogni sera era lì. E più lo scacciava più tornava forte e non la faceva dormire. « Ti prego, non posso... » sussurrava la zoppa, i pugni premuti allo stomaco. « Ti prego! » Si alzò, prese la stampella dal comodino. I capelli sciolti le scendevano sul viso a ogni passo, si fermò nel corridoio e li incastrò dietro le orecchie. Lì ascoltò un piccolo suono, un soffio pesante. Fece un passo, poi un altro. Dal corridoio si sporse e vide il matto che rannicchiato dormiva sulla poltrona. Aveva la testa riversa all'indietro, poggiata su un bracciolo. Le sue labbra ogni tanto si schiudevano e buttavano fuori una bolla d'aria. Lo fissò per poco, poi si fece forza sulle braccia e il piede curvo scese. Diventò leggera. Leggera che quasi non toccava terra. Superò la camera chiusa dei suoi genitori. Avanzò fino alla scala larga e irregolare. Si ricordò di quella notte, quando suo padre si era svegliato perché lei era caduta mentre scendeva i gradini.
« Non devi » aveva detto lui.
Arrivò al piano di sotto. Laggiù c'era la cucina, con il tavolo di legno nero coperto di fogli. Nell'angolo, un vecchio arcolaio e un cesto con un po'"della lana di R. Si avvicinò e la toccò: pungeva, era grossa. Alzò la testa, sulla parete le pentole erano appese una di fila all'altra. Guardò nel camino dove suo padre aveva arrostito la carne per la cena, i tizzoni ancora accesi che la scrutavano tra la cenere.
La notte era muta.
Saltellò verso la porta d'entrata. Si alzò in punta di piedi e sollevò il gancio alto del legno. «Ti prego...» disse ancora a se stessa. Poi si accovacciò e aprì il gancio basso. Si tolse i capelli dagli occhi e ascoltò il petto che non si era mai fermato. Appoggiò i pugni allo stomaco. E spinse, spinse.
Sospirò. E spinse, ancora e ancora.
« Oh...»
Era tutta d'argento. Di un argento che brillava più dell'orologio di suo padre, più dei bracciali di sua madre e di tutti i lumini del mondo messi insieme. La piazza era di un argento che faceva chiudere gli occhi. Era bianca e di luce, poi un po'"azzurra e al centro diventava blu. Era grandissima. La fontana non stava un attimo zitta e il gorgoglio dell'acqua pareva una voce leggera e senza fatica. Di fronte le case avevano i muri che iniziavano a scrostarsi, ognuna con un colore diverso e le loro porte erano bocche spalancate che dormivano. Poi la torre, sopra ogni cosa, che accarezzava le stelle.
L'aria fresca si infilò nel vestito da notte, le scosse la pelle del viso. L'orologio segnava la una e un quarto.
Si voltò intorno e si chinò, toccò uno dei ciottoli. Lo sentì di ghiaccio, vivo. Restò a fissare il portone della torre che dal basso era davvero un gigante. Si immaginò il maestro delle campane che usciva da là e invece di tornare a casa batteva le scarpe davanti alla sua porta. Avrebbe bussato, gli avrebbero aperto e sarebbe salito fino alla stanza della finestra. E le avrebbe regalato una mantellina rossa, rossa con i fiori chiari come quella che portavano le bambine della scuola.
Sarebbe successo prestissimo, cosi le aveva detto suo padre.
Ma l'orologiaio vero da lei non venne. Ne arrivò uno che gli assomigliava molto, più basso ancora, più piccolo e con i capelli lunghi e in disordine. L'orologiaio nuovo comparve all'improvviso nella stanza della finestra. Al posto dell'orologio da taschino aveva una cipolla vera, con il gambo che gli faceva da catenina.
« Zoppa! Sono il maestro delle campane con la pancia grassa! » disse il nuovo orologiaio.
« Nunù...» La zoppa non riusciva a tenere gli occhi aperti dal ridere.
« La zoppa non è brava a scuola! » diceva il nuovo orologiaio, la voce grossa, e intanto si avvicinò a lei. Aveva un cuscino nascosto sotto la maglia slabbrata, un cuscino che gli usciva per metà. E sopra tutto una giacca che lo inghiottiva. I pantaloni erano grandissimi e gli strisciavano per terra. Le guance erano coperte da uno strato di belletto rosso, quella che la madre della zoppa aveva usato un tempo per truccarsi.
« Nunù! » La risata le uscì tutta in una volta, poi cercò di prendere fiato mentre il nuovo orologiaio le continuava a dire: «Solo Nunù è bravo! La zoppa no! » e poi guardava la cipolla e con gli occhi spalancati si metteva a correre e a strillare: « La campana, la campana, din don, din don... » E quei capelli non erano più ruffi, ma schiacciati e lisciati tutti da una parte.
« Nunù... Non si prendono i vestiti di papà, e il trucco di mamma... » La zoppa si mise una mano in faccia.
« Io non sono Nunù, io sono il maestro delle campane con la pancia grassa. »
« Quello vero non viene più » disse la zoppa e diventò seria all'improvviso.
Quando qualche giorno dopo sentì la porta di casa cigolare, la zoppa pensò che il maestro delle campane fosse finalmente arrivato. Ma chi vide nel corridoio fu quel signore alto alto, con gli spigoli in tutto il corpo e la bocca sempre rivolta all'ingiù. Portava una vecchia borsa sformata che teneva stretta con entrambe le mani. Lei lo aveva già visto entrare nelle case e suo padre le aveva raccontato che sapeva curare ogni malattia perché conosceva i segreti delle piante.
« E' stato Jerome a chiamarmi » aveva detto lui salendo le scale, e senza guardare la stanza della finestra era andato dalla moglie del sindaco.
Così la zoppa e il matto li avevano visti, tra il muro e la porta socchiusa. Sua madre non fiatava, annuiva in silenzio. Lui la visitò. Le slacciò il vestito da notte, la fece girare, le batté le dita sulla schiena. La scrutò in bocca e dentro gli occhi. Le mise una mano sulla testa: « Esce sangue ogni mese? » e con un dito le indicò la pancia. Sua madre aspettò poi disse che no, che il sangue non c'era più. Così lui disse che se lei lo voleva davvero, il sangue poteva tornare ancora. « Hai la stanchezza » fece mentre si rimetteva il cappello. « La stanchezza. » Dalla borsa prese un barattolo stipato di foglie. « Lasciale in acqua molto calda. Devono liberare tutto il loro succo, scuro e amaro. Lo berrai e ti ridarà forza. » E se ne andò. Ma prima rimase qualche attimo nel corridoio. Fissò la zoppa, fece un cenno con la testa, la bocca sempre triste. Poi scese le scale.
Appena lo sentì uscire, lei zoppicò subito nella stanza di sua madre. La vide che piangeva. La schiena era scossa dai sussulti e una parte di camicia aperta le cadeva dalla spalla magra. Le lacrime scendevano fino al mento e bagnavano le labbra tese. Da un giorno all'altro le rughe della pelle erano affiorate sulle tempie, sulla fronte. E gli occhi, scavati e confusi nel pallore acceso della faccia. I capelli lunghi e neri adesso erano sottili e lasciavano scoperta la testa in alcuni punti, come a macchie bianche.
« Sei stanca mamma? » fece lei saltellando al letto.
Sua madre sollevò la testa e fece come per trattenere il respiro. Le lacrime si fermarono. Si ripulì il viso e all'improvviso la portò accanto a lei. L'abbracciò e intanto l'accarezzava proprio lì, sulla gamba debole. Le toccava il piede curvo, le picchiettava la caviglia sformata. «E qui, è qui la disgrazia. » La mano batteva sempre più forte sul piede debole. « E qui, piccola mia. »
« Mamma. » Provò a stringerla ma la donna pianse forte, un gemito che squarciò la stanza. E il suo profumo dolce e morbido di un tempo si era fatto aspro. La zoppa si aggrappò ai suoi fianchi spinosi e appuntiti, li afferrò, loro si dimenavano e non si facevano prendere.
« E qui! » sua madre urlò fortissimo.
La zoppa balzò giù dal letto e fece un passo indietro. Fissò sua madre con gli occhi sgranati. « Mamma » ma le morì in gola.
« Siamo la disgrazia. »
Fu un attimo, da dietro lei si sentì sollevare e portar via. Non si accorse subito chi fosse, ma abbracciò quel collo. Lo strinse forte, ci si aggrappò. Si ritrovò nella stanza della finestra.
« Nunù» disse la zoppa mentre lo guardava che riprendeva fiato. Lui le mostrò i denti disordinati poi corse di nuovo verso la camera di sua madre.
« No » fece lei a mezza voce.
Nunù tornò in un momento, il rumore della porta sbattuta ancora sospeso. « La porta resta chiusa » esclamò mentre si toccava il naso.
Quella porta sbatté e nessuno di loro due l'aprì più. Solo suo padre, che faceva mangiare sua madre e le dormiva accanto, che le rimaneva vicino mentre lei gridava.
« E stanca » diceva lui.
La zoppa e il matto ascoltavano i lamenti ma anche le risate che scoppiavano e parevano venire da una caverna. In quei giorni molti venivano alla casa rossa per farle visita. Alcuni bussavano e rimanevano un attimo a parlare con suo padre, altri sparivano subito nella camera.
La zoppa aspettava, aspettava con l'orecchio alle scale. E quando qualcuno entrava nel corridoio, lei andava a nascondersi sotto il tavolo dei gomitoli, le voci che fuggivano dalla camera accanto. C'era quella di bambino del maestro dalle gambe corte e quella della vecchia filatrice, cavernosa e rauca. E poi il tono silenzioso delle donne di R. che una alla volta bisbigliavano serie. Lei le ascoltava tutte, le braccia avvolte alle ginocchia, gli occhi chiusi: « Andate via, andate via » pregava fra sé. E quando i passi tornavano da dove erano venuti, con un guizzo scattava alla finestra: « Ti hanno guardato, Nunù? »
Lui spostava la tenda. « Nessuno trova Nunù! » diceva e tornava a nascondersi.
Invece il giorno dopo qualcuno lo trovò. E trovò anche la zoppa.
Fu lei che li vide arrivare, erano in quattro.
« Nunù! » Lo afferrò per un braccio.
Marie la bottegaia precedeva il fornaio. Subito dietro la moglie di Saliou teneva per mano suo figlio Marcel, il bambino che la fissava sempre dalla piazza. Raggiunsero il piano di sotto, le voci salirono tutte insieme.
« Vieni, Nunù. » Lo trascinò sotto il tavolo. « Non ti muovere adesso, zitto zitto... » gli disse con l'indice davanti alle labbra. Nunù diventò serio. La porta della camera di sua madre si aprì. Le voci si scavalcavano, erano vicine. La zoppa sgranò gli occhi e tra il legno del tavolo e il pavimento vide delle gambe che venivano avanti.
« Aiuto. » Nunù si scosse.
Di fronte a loro, due scarpe rosse spuntavano da una lunga gonna verde.
«Aiuto... » Il matto si coprì gli occhi. Li riaprì subito e davanti a lui ora c'erano una camicia bianca e uno scialle lungo e colorato attorcigliato a un viso stretto: la bottegaia Marie li stava fissando.
Nunù si strinse alla zoppa.
La donna si infilò sotto il tavolo. Poi fece il gesto del silenzio e indicò la stanza accanto. «Facciamo piano altrimenti ci scoprono. »
La zoppa non fiatò. Allentò la presa al braccio di Nunù che cantava sottovoce. « Buongiorno » disse infine con la voce tremante.
« Buongiorno... E' tanto che abitate qui?»
La zoppa fece di no con la testa.
« C'è posto per me? »
Lei annuì.
E Marie sorrise.
La zoppa la vedeva sempre dal vetro, una sola volta da vicino: il giorno in cui era venuta a casa e con sua madre avevano scelto i drappi per addobbare la piazza per la grande festa.
Dalla stanza accanto l'uomo la chiamò.
« Ora vado da tua madre, verrò dopo a salutarvi» sussurrò Marie e a piccoli passi, quasi danzando, scomparve.
« La bella signora ha guardato Nunù e la zoppa» disse il matto.
Lei non parlò. Il pulviscolo di voci si alzò forte. Riconobbe Marie, sua madre, il fornaio, sua moglie. Parole, e di nuovo silenzi. Bisbigli. Poi lei che tornava da loro.
« Venite fuori » disse la bottegaia.
Nunù indietreggiò e la zoppa con lui.
« Non volete? » domandò la donna mentre porgeva le due mani.
Nunù fece di no con la testa e si coprì il viso con la manica della vecchia giacca.
La zoppa fissò le mani tese. Le sfiorò appena con il viso mentre si faceva leva sulle braccia.
Marie l'aiutò a uscire.
« Vieni Nunù, vieni anche tu. »
Lui scosse la testa.
« Come sei diventata grande. » La bottegaia aveva tutte le guance rosse.
« Fra poco ho nove anni» disse la zoppa contando con le dita.
« E tu quanti anni hai? »
Nunù aveva fatto finta di non sentire.
« Ha undici anni » suggerì la zoppa.
« Nunù ha undici anni » ripeté il matto, poi ricominciò a cantare.
« Cosa canti? »
« La canzone del papà di Nunù. »
Allora la bottegaia si chinò.
« Ah!»
« Non ti faccio niente. » Marie lo accarezzò tra i capelli ispidi e spettinati. « Anche io conosco una canzone. »
« Che canzone è? » chiese la zoppa.
La bottegaia prese a intonarla mentre usciva da là sotto, la sua mano stretta a quella del matto.
« Marie » chiamò una voce di uomo dal corridoio.
Lei si voltò. Il fornaio la stava osservando. « Arrivo subito » e lanciò un'occhiata ai due bambini.
« Marie » chiamò ancora lui.
La bottegaia si avvicinò alla zoppa e a Nunù. « Devo andare, ma ci rivedremo presto. Tornerò a trovare tua madre. »
La zoppa girò la testa verso Marie. Dietro di lei, nel corridoio, il fornaio e sua moglie stavano osservando. C'era loro figlio, il bambino col cappello storto e le guance paffute. Il bambino con gli occhi di ghiaccio dentro il viso roseo. Le palpebre strette a metà, il mento appena sollevato. La testa nuda e biondiccia, la pancia che spingeva contro le bretelle. « Marcel, vieni » disse la moglie del fornaio intanto che lo conduceva per le scale. Ma i suoi occhi erano incollati alla finestra. Lui sorrise all'improvviso, poi alzò la testa verso sua madre. « E' la zoppa, mamma. »
« Andiamo Saliou » insistette la donna.
« Marie » esclamò il fornaio.
La bottegaia lasciò la zoppa aggrappata al braccio di Nunù.
« Jerome! » chiamò Saliou.
Il sindaco uscì dalla camera e li raggiunse. Poi aspettò che tutti loro scendessero al piano di sotto, e solo dopo andò dalla zoppa. L'accarezzò, ma lei si ritrasse.
« Guardano! Il fornaio con la testa che brilla e la moglie tonda guardano la zoppa!» gridò il matto al sindaco. Poi tornò a cantare la sua canzone mentre le guance della zoppa iniziavano a bagnarsi.
E così lui arrivò. Venne assieme alla pioggia d'estate, che da ore gorgogliava tra i ciottoli come da tempo non faceva e benediva i preparativi per la festa di R.
Bussò due volte.
« Grazie » disse il sindaco appena lo vide. E insieme salirono le scale.
Nunù si nascose dietro la tenda. Lei avvolse il piede curvo attorno alla gamba forte, rimase incollata alla finestra finché lo sentì nel corridoio. Allora si voltò.
La barba del vecchio era ancora più rossa di come appariva dal vetro. Era come il sole di sera che scendeva dietro le montagne. Alcuni fili sparsi qua e là erano bianchi e colpiti dalla luce diventavano d'argento. Gli occhi, così azzurri e infossati. Piccolissimi. Aveva gli zigomi all'infuori, anche il mento del resto, e le orecchie erano grandi e tutte schiacciate alla testa. I capelli erano pochi, giusto un ciuffo disordinato in mezzo al cranio sporcato di macchie piccole e marroni.
Suo padre sorrise e si lisciò un baffo. « Lui è Gustave, sarà il vostro maestro » fece e gli sfiorò una manica della giacca sgualcita.
« Il maestro delle campane! » gridò Nunù. «Il maestro delle campane! »
L'orologiaio si voltò di scatto: « Dove sarebbe questo maestro delle campane? » Aveva una voce rauca e mentre parlava il respiro pesante grattava contro le narici.
Nunù spalancò lo sguardo e si accucciò a terra. Cantò, le dita che si arrampicavano su per il naso tempestato di lentiggini. Poi si bloccò e indicò l'uomo: « Il maestro delle campane è tutto rosso in faccia! »
Il vecchio appoggiò la sacca che gli pendeva dalla spalla. La sistemò sulla poltrona e si avvicinò al matto. Lo afferrò per i fianchi e se lo caricò addosso.
« Aiuto! » urlava Nunù.
« A sedere» e lo lasciò andare piano su una delle sedie al tavolo dei gomitoli.
La zoppa nascose una mano nell'unica taschina della gonna. La tenne lì dentro e quando il vecchio la guardò, la estrasse stretta stretta e con la stampella saltellò da lui. « E un regalo. » Allungò il braccio e distese le dita. Poi si sforzò di tenere alta la testa ma non ci riuscì.
Nunù e il sindaco fissarono un fagotto che spiccava dal palmo della bambina. Era un fazzoletto di stoffa avvolto tre volte su se stesso.
L'orologiaio aggrottò la fronte. Fece un passo avanti, poi toccò il fagotto e con le due dita tozze lo sollevò piano piano. Lo srotolò con attenzione, un lembo alla volta. In un angolo trovò un biscotto a punta, una noce con tanti puntini bianchi sulla cima.
« E il pane allo zucchero » disse la zoppa.
Il sindaco si aggiustò gli occhiali sul naso. Pensò a quel dolcetto, che solo due giorni prima aveva dato anche a Nunù.
L'orologiaio strinse il biscotto tra il pollice e l'indice e in un baleno lo fece sparire nella bocca. Lo masticò, gli occhi chiusi, e la barba che saliva e scendeva, saliva e scendeva.
« Buono! » disse Nunù.
« Buono » mormorò il vecchio. « E il mio dolce preferito. » Poi raggiunse una sedia e la scostò dal tavolo. Inclinò la testa verso il posto vuoto.
« Vai » disse il sindaco alla zoppa. Guardò suo padre che lasciava la stanza, poi saltellò fino a lì e il vecchio le accostò lo schienale per farla sedere.
« Mi chiamo Gustave, sono il maestro alla scuola. »
« Il maestro delle campane! » gridò Nunù.
La zoppa si sfilò lo zoccolo dal piede e colpì il matto sotto il tavolo con un calcio.
Nunù prese uno dei gomitoli e lo appoggiò lì, di fronte a lui. Ci schiacciò la testa sopra e socchiuse le palpebre.
« Il mio nome è Gustave. »
« Il mio nome è Nunù » esclamò e sollevò il viso. E subito lo riabbassò.
« Nunù » ripeté lui. « E tu invece come ti chiami? » le chiese il vecchio.
Lei non rispose.
« Sei senza nome? » chiese ancora l'uomo.
« Zoppa » rispose il matto.
« Non mi vuoi dire il tuo nome? »
Lei abbassò la testa. Si incantò su uno dei gomitoli e non lo lasciò fin quando non si sentì più quegli occhi addosso. Ora l'orologiaio si era voltato verso il vetro, le tasche dei suoi pantaloni erano gonfie delle mani e la giacca spiegata gli arrivava appena sotto il sedere. Osservò la sacca sulla poltrona: il grosso mazzo di chiavi forse era lì. Fu un pensiero veloce e interrotto dal canto del matto.
« Cosa canti? » domandò col fiato che sporcava le parole. L'orologiaio camminò verso il tavolo e si chinò sul matto. « Che canzone è? »
« E' la canzone del papà di Nunù. »
« Canta » e gli tamburellò due dita tra i capelli. « Cantala ancora » disse passandosi una mano sulla testa mezza glabra.
La zoppa fissò il vecchio. Se lo immaginava ancora col passo svelto, le chiavi che pendevano, il corpo che un po'"dondolava. Chiuse gli occhi per vederlo meglio e quando li riaprì, se lo trovò di fronte. Le toccò una spalla e si accovacciò a fianco della sua sedia. «Cosa dice la canzone del papà di Nunù? »
La zoppa si sentì il fuoco che saliva sulle guance. Sollevò la gamba debole e la incastrò sotto il sedere. «Nunù vuole andare dove non ci sono gli uomini che lo guardano » rispose.
« E' vero che vuoi andare dove nessuno ti guarda? »
Nunù tacque. Spalancò gli occhi azzurrissimi, poi disse: « Dove nessuno guarda Nunù »,
« E che posto è? Sentiamo... » L'orologiaio si sistemò su una sedia e con il braccio scansò i gomitoli più lontano.
Il matto indicò fuori dal vetro, in alto. « Nel cielo, nel cielo nessuno guarda Nunù.»
« Ma nel cielo ci sono gli uccelli e loro ce li hanno gli occhi, »
« Gli uccelli vogliono bene a Nunù. » La sua voce diventò calma. Balzò in piedi e per due volte corse intorno a loro. Agitava le braccia, due lunghe ali che sbattevano in volo.
La zoppa rise. Poi le sue labbra diventarono serie quando il vecchio abbracciò Nunù e se lo mise sulle ginocchia.
« Aiuto! » fece lui e si sbilanciò in avanti, il viso appoggiato sul ripiano. Si rialzò subito nel momento in cui uno scroscio violento vibrò sopra di loro. Le gocce di pioggia erano secchi colpi di tamburo.
« Ti piace la canzone di Nunù?» chiese l'orologiaio alla zoppa.
Lei ci pensò su, poi fece cenno di sì.
« Allora anche tu vuoi andare dove nessuno ti può guardare. » Tossì.
La zoppa non fiatò.
Fu allora che l'orologiaio tirò fuori dalla sacca un quaderno verde.
Doveva essere il quaderno dove i maestri scrivono se un bambino è bravo oppure no. L'aveva raccontato suo padre che di quaderni verdi come quello alla scuola ce n'erano più d'uno. Così la zoppa ripensò alle parole che aveva detto davanti al vecchio, forse le aveva dette sbagliate e adesso il maestro delle campane lo avrebbe scritto sul quaderno. La sua fronte si riempì di pieghe.
L'orologiaio la guardò e prima di aprire il quaderno la trascinò con la sedia e tutto accanto a lui. Poi le posò una mano sullo chignon. « Di cosa hai paura? »
« No, no, maestro Gustave. Non ho paura io » disse ma le rughe diventarono ancora più nere.
Anche Nunù sedeva di fianco al vecchio. Adesso se ne stava ben ritto e allungava un po'"alla volta la mano al quaderno verde. Lo sfiorò e mentre il maestro delle campane era rivolto alla zoppa, ne sollevò un angolo.
Lei sbirciò con un occhio e incominciò a ridere, cercò di trattenersi, ma non ci riuscì. L'orologiaio si voltò.
Il matto era già con la testa dentro le pagine. « Aiuto! » fece quando fu sollevato di peso.
« Siedi al centro » disse l'orologiaio alla zoppa.
La zoppa si alzò dalla sedia e la lasciò al matto. Poi saltellò e si accorse che la gonna alta le mostrava il piede curvo nella calza nera. Si chinò e la fece scendere più che riuscì.
« Non guardare maestro delle campane!» strillò Nunù.
La zoppa scattò maldestra alla sedia, una cavalletta che saltava da una foglia all'altra, scomposta in volo e subito richiusa a terra. Poi tenne la testa china al grembo.
« Aprilo. » Il vecchio le avvicinò il quaderno.
Il rumore della pioggia non c'era più. Dalla piazza il suono dei preparativi per la grande festa ricominciò. Colpi di martello insieme al vociare entravano deboli nella stanza della finestra.
Se lo trovò sotto gli occhi. Allora lo toccò. Era ruvido e rovinato negli angoli. Aprì la prima pagina.
Lo stupore le restò intrappolato in gola. Davanti a lei c'era una distesa azzurra e d'argento, senza fine, con degli uccelli bianchi che ci volteggiavano e non la sfioravano.
« E' il mare » disse il vecchio.
« E' il mare Nunù! » mormorò lei avvicinandosi al disegno. « E così il mare, maestro?»
L'orologiaio si alzò in piedi e andò alla credenza, la aprì e afferrò la brocca d'acqua che si intravedeva dal vetro. « Chiudete gli occhi » disse e la mise sul ripiano tra loro. Poi prese le mani della zoppa e del matto.
« Aiuto! » farfugliò Nunù.
« Le sue acque sono freddissime e...» Immerse le punte delle loro dita nella brocca.
La zoppa sentì un brivido per tutto il braccio.
« E le onde arrivano a coprire anche una casa intera. » Agitò la brocca e l'acqua schizzò sui loro polsi e un poco fuori.
« Nunù muore nel mare! » disse il matto e tolse via la mano.
La zoppa la tenne immersa, la spinse ancora più in giù. Ora le sue dita nuotavano, le onde le portavano via, sospese, senza peso. «Mi piace il mare, maestro... »
Il vecchio le asciugò la pelle con un fazzoletto, poi fece lo stesso con il tavolo e riavvicinò il quaderno a loro. «Puoi riaprire gli occhi... » disse.
Così lei vide che sopra il mare il cielo era rosso e il sole quasi rosa. Le onde alte di schiuma bianca si rompevano sugli scogli appuntiti. Una barca piccola piccola era ferma all'orizzonte e stava per scomparire dove nuvoloni neri scagliavano fulmini aguzzi.
« Ci sono i pesci che mangiano gli uomini. » Il matto indicava il foglio.
« Sono gli uomini che mangiano i pesci, Nunù! » Il maestro delle campane gli poggiò una mano sulla testa.
« Anche i pesci grandi? » chiese la zoppa.
« Anche le balene, che sono grandi come la piazza di R. »
« Come la piazza...» ripeté incredula.
« Gira pagina » le sussurrò poi il vecchio.
Adesso il mare non c'era più. Pennellate grosse spiccavano dal foglio, nuvole bianchissime restavano sospese sopra i tetti delle case di una città lontana.
« Nella città ci vuoi andare, Nunù? » domandò il maestro delle campane.
Lui restò zitto. Strisciava un dito sulla carta secca di colori. All'improvviso voltò pagina, e tutti e tre furono nella piazza di R. vestita a festa, dove una torre altissima e un orologio sembravano veri.
« La mia casa! » disse la zoppa toccando i muri rossi sotto un tetto ocra. «E questo è papà! » E indicò uno schizzo marrone in disparte.
L'orologiaio annuì.
« Io non ci sono nel disegno perché la finestra non si vede » fece lei avvicinando gli occhi al quaderno.
« Forse sei una di queste... » Il vecchio segnò le pennellate variopinte sui ciottoli bianchi.
La zoppa scosse la testa. « Io non ci sono nella piazza » disse.
Il maestro delle campane si strofinò la barba. I suoi occhi non erano più azzurri, adesso erano grigi. E prima di parlare, il respiro gli fischiò in gola. Indicò un punto del disegno: « Tu sei questa e questo qui è Nunù ». Il suo pollice sfiorò due strisce di giallo accanto alla fontana grigia.
« Nunù e la zoppa! » esclamò il matto osservando bene il dipinto.
« Io non sono lì » fece tutto d'un fiato.
L'orologiaio le sistemò il dipinto sotto il petto. « Dove vuoi essere allora? »
Restò muta. « Con le bambine della scuola, qui » disse poi e il dito sottile finì sotto la torre. « Io e le bambine corriamo e io sono la più veloce di tutte » aggiunse e con la mano batté su uno spruzzo di rosa più avanti degli altri. « Gustave » balbettò poi sforzandosi di leggere la scritta che spiccava in fondo alla pagina.
« Sai già leggere » sussurrò lui.
« Gustave » ripeté lei. « Sei tu maestro ! Sei un pittore! » esclamò subito dopo.
Nunù staccò gli occhi dal quaderno e per un attimo guardò il vecchio ridere con tutto il petto che sussultava. Poi l'osservò tirare fuori dal taschino della camicia un orologio senza catena. « Din don din don » strillò il matto.
« Non è ancora l'ora, c'è tempo. »
La zoppa non fissò mai il quadrante nella mano del maestro. Sbirciò una piccola immagine sgualcita incastrata nel coperchio interno dell'orologio. Era una donna con i capelli ricci e il viso allegro, la bocca carnosa rideva e un neo leggero le sporcava la pelle chiarissima sopra le labbra. Dal collo pendeva una catenina con un pendaglio che lei non riuscì a distinguere perché un colpo secco chiuse l'orologio.
« Sfoglia Nunù » fece il vecchio.
Allora la zoppa si voltò verso il tavolo e restò in silenzio, mentre la voce di Nunù strillava a ogni disegno che scorreva.
« Il bosco! » esclamava il matto. « Il monte! » diceva ancora e avvicinava i suoi occhi come a entrare in quei disegni, la punta della lingua tra le labbra.
La zoppa rimase zitta finché non comparve anche nel quaderno la sposa dell'orologio. Arrivò molti fogli dopo e nel viso ora c'era colore. Le guance erano di un rosa tenue e gli occhi, scuri, sembravano più grandi e allungati. Era ancora più bella, pensò. Il neo era minuscolo, il tocco di un pennello finissimo. Dal collo pendeva una rosa d'argento.
« Chi è lei, maestro Gustave? » domandò la zoppa.
Nunù avvicinò la testa al foglio.
L'orologiaio tossì. « Si chiama Glaudine. »
« La moglie del maestro delle campane ! » fece il matto.
« Non la vedo da tanto tempo. »
« Non è più la tua sposa? »
L'orologiaio sorrise e si alzò in piedi. Si sfilò la giacca e la stese sulla poltrona, « Venite. »
Nunù saltò su e disse: « La zoppa e Nunù hanno visto la moglie dell'orologiaio » e in due passi gli fu accanto.
« Vieni. » Il vecchio si rivolse anche a lei.
La zoppa saltellò e a ogni balzo fissava l'orologiaio che la seguiva con occhi attenti senza mai guardarle la gamba. Neanche una volta.
« In quale pagina del quaderno ti piacerebbe essere? » domandò il vecchio.
Lei ci pensò su. Poi avvicinò il naso alla finestra e il suo dito si alzò a mezz'aria.
« Io... io maestro... il...» L'indice segnava il centro della piazza di R.
Il quaderno verde rimase sul tavolo dei gomitoli per tutto il tempo che l'orologiaio andò al piano di sotto e parlò con il sindaco e sua moglie. Nunù il matto fissava la prima pagina, la osservava in ogni angolo, e con una mano accarezzava la carta porosa mentre la zoppa si era accucciata nel corridoio ad ascoltare.
« R. ha deciso e non c'è sofferenza che... » sentì dire.
« R... » disse sbuffando il maestro delle campane.
« R. ! » gridò sua madre.
La zoppa si strinse le mani una dentro l'altra, poi scattò in piedi. Si tenne appoggiata al muro.
« Dio sa quante volte ci ho pensato » disse suo padre e il tono della voce era debole.
La zoppa si schiacciò alla parete.
« Dio sa quanto...» fece ancora il sindaco.
« Non possiamo farlo. Non possiamo. » Sua madre fece uscire quelle parole tutte d'un fiato, poi l'arcolaio prese a cigolare. « Secondo te non ci ho mai pensato? Credi che abbia passato questi anni senza pensare cosa fare per lei? Gustave, lei è mia figlia, mia figlia. »
« Ma tu... »
« E' mia figlia e io la amo. » La voce tornò flebile, l'arcolaio si fermò. « Ma io, Gustave, sono parte di R. »
L'orologiaio tossì e la zoppa sentì quei colpi avvicinarsi sempre più. All'improvviso vide il vecchio alla scala, la guardò per un istante.
Lei si rannicchiò a terra e corse alla stanza della finestra, lì il matto sbirciava il quaderno al tavolo dei gomitoli.
« Nunù è stato qui. » Batté con una mano sulla copertina verde e sfogliò le pagine una a una. Si fermò. « Qui » disse poi alzandole il foglio.
La zoppa teneva lo sguardo un po'"al corridoio, un po'"al matto.
« Nunù è stato nel bosco, nel bosco! » esclamò.
« E ci vuoi tornare? » Il vecchio comparve. In mano stringeva l'orologio, fece scattare il coperchio.
Il matto si zittì: « Il papà di Nunù si è addormentato » disse e i suoi occhi grandi si fecero lucidi e piccoli, « Nunù resta qui con la zoppa. » Corse alla poltrona e si stese la giacca del vecchio sul viso, come una coperta. Rimase così, sepolto da quello strato di velluto con le gambe piegate che penzolavano dal bracciolo.
« Venite qui » disse l'orologiaio e si avvicinò al tavolo dei gomitoli, la sacca in mano.
La zoppa non si staccò dal vetro. Con la coda di un occhio seguiva l'ombra del vecchio, al centro della stanza. Anche Nunù lo ignorò e la coperta sopra il suo naso si sollevò appena.
« Venite, ho qualcosa per voi. »
Non finì la frase che il matto fece capolino dalla giacca. Si asciugò il viso con le mani e saltò in piedi. In un secondo raggiunse la zoppa accanto all'orologiaio.
« Che cos'hai maestro Gustave? Che cosa? » domandò lei.
Il vecchio rovistò nella sacca. Tirò fuori una scatola tonda, svitò il coperchio e la inclinò. Una cascata di matite si rovesciò sul tavolo. C'era il rosso, il verde. C'erano il blu e il giallo. E l'arancione e il rosa e l'arcobaleno intero.
Nunù iniziò a toccare ognuno di quei legnetti. Li prendeva, li faceva cadere e li riprendeva.
« Due per ciascuno » sussurrò il vecchio facendosi da parte.
Il matto li lasciò cadere tutti sul ripiano. « Due è poco. »
La zoppa si avvicinò piano. Scelse quello rosso. E con un dito sfiorò il rosa.
« Quale prende Nunù? » si domandò il matto a voce bassa.
« I colori che ti piacciono di più. » L'orologiaio gli andò vicino.
« Nunù prende... » E afferrò il blu. E poi il giallo.
Fu un attimo e il maestro delle campane ripose le altre matite dentro il contenitore tondo.
« Tra due giorni ritorno, e voi mi mostrerete il vostro disegno. » Diede loro due fogli bianchi che strappò da un quaderno senza la copertina. «Un disegno, quello che vi piace. » Raccolse la giacca a terra e la scrollò con alcuni colpi secchi. Se la mise addosso, e sistemò ogni cosa nella sacca. Poi andò da Nunù: « Hai capito? Un disegno, come vuoi tu ».
« Un disegno come vuoi tu » ripeté il matto.
Il vecchio sorrise e camminò attorno al tavolo dei gomitoli. Quando fu vicino alla zoppa, aprì la mano tozza, come faceva dalla piazza per salutarla, e le disse a presto.
« A presto, a presto maestro Gustave... »
L'orologiaio non fece in tempo a scendere le scale che già la zoppa e Nunù il matto erano di fronte al vetro, le dita intorno ai quattro colori, i loro visi all'orologio. Mancavano cinque minuti alle sei, il maestro stava per suonare l'ora della casa.
Un solo giorno e il foglio bianco di Nunù si riempì. Il matto disegnò l'orologio. Il grande orologio e la torre di pietra che si alzava dalla piazza del paese. La zoppa si svegliò la mattina e trovò il dipinto sul tavolo dei gomitoli. Un cerchio blu, mezzo storto, nella parte alta del foglio con dentro due linee gialle un po' inclinate e un po' dritte, le lancette. La torre, uno zig zag che pendeva da una parte. In cima, la cella di ferro erano tre righe scure che si mischiavano alla campana, un triangolo riempito di giallo.
La zoppa avvicinò il foglio al viso. Poi scrollò la spalla di Nunù che russava sulla poltrona. « E bello, è bellissimo! » disse mentre sventolava la carta.
Lui si stropicciò gli occhi e inclinò la testa verso di lei. Sorrise.
« Bravo! » fece la zoppa.
Nunù si alzò in piedi. Aveva le palpebre a metà e gli angoli della bocca incrostati di saliva secca. « Il rosso, il rosso » e con un dito indicò il foglio.
Lei saltellò fuori dalla stanza della finestra. Tornò subito con in mano una matita.
Il rosso servì al matto per scarabocchiare un grosso punto, proprio al centro della carta. Da lì fece uscire due gambe e due braccia corte e forti. «Il maestro delle campane! » esclamò e prese il blu tra le dita. Con quello fece un quadrato, alla base della torre. « La porta » disse.
La zoppa annuì mentre lui era già accovacciato sulla poltrona, gli occhi ben chiusi e il fiato di nuovo pesante.
Lei aspettò che suo padre la mettesse a letto per far scorrere i colori. Durante il pomeriggio aveva sbirciato i preparativi della grande festa di R. Sulla piazza erano stati appesi i drappi quadrati che si agitavano al vento e che ogni tanto si staccavano e volavano via. Gli ultimi tavoli erano stati messi uno dietro l'altro e pronti per il pane allo zucchero, il vino rosso, il miele e i fiori secchi. Il palco era quasi finito e i banchetti attorno alla piazza avevano tutti due spighe di lavanda appese sul fronte del ripiano. Tra due giorni lì sopra avrebbero messo a vendere la lana malata di R.. Sua madre le aveva spiegato che quando la lana era ancora magica non c'era bisogno di venderla durante la grande festa. E nemmeno di farla vedere. Con la lana magica bastava aprire l'Arco e tutte le genti entravano anche solo per rendere grazie al paese che era un miracolo di Dio.
« Ora dormi» le disse suo padre dopo che l'ebbe messa a letto.
Così la zoppa aspettò di sentirlo scendere le scale e quando fu sicura che era arrivato all'ultimo scalino, accese la lampada. La appoggiò sul comodino. Illuminò il foglio e le matite.
« Un bel disegno » sussurrò.
Fece un grande cerchio rosso. E lo riempì di tanti piccoli cerchietti rosa, i ciottoli della piazza. Una sola casa, la casa del sindaco. E lì, quasi di fronte, la torre con l'orologio che segnava le due. Poi nell'altra metà del foglio disegnò una luna mangiata. Usò un'ultima volta il rosa per il viso, le braccia, le mani e quell'unico piede. Con il rosso colorò dei capelli lunghissimi e un triangolo, che da sotto la testa arrivava a terra.
La zoppa spense il lumino. E sotto il lenzuolo, sentì la notte e i ciottoli freddi della piazza contro il piede e l'orologio che la guardava dall'alto mentre segnava le due. La luna mangiata, lassù. R. che dormiva. E il triangolo sulle spalle, la sua mantellina rossa.
Si presentò che erano le quattro del pomeriggio, con un giorno di anticipo.
« Il maestro delle campane? » si chiese il matto quando lo vide che si fermava alla porta.
La zoppa corse nella sua camera.
Quando tornò, lo sguardo di Nunù si posò sul foglio che lei stringeva in mano. « E' brutto » le disse prima ancora che lo appoggiasse sul tavolo dei gomitoli.
Al piano di sotto la voce di sua madre si intrecciò ai sussurri dell'orologiaio. Poi l'arcolaio ripartì.
« Buonasera » disse l'uomo davanti a loro, e tossì.
La zoppa zitta, il disegno dietro la schiena.
« Questo l'ha fatto Nunù » esclamò il matto e subito allungò il suo foglio al vecchio.
L'orologiaio lasciò la sacca sulla poltrona e la giacca sullo schienale della sedia. Poi si passò la mano sul viso e su su fino alla fronte. Strizzò gli occhi: «Vediamo... » E con un gesto secco sfilò a Nunù il disegno.
« E' molto bello il disegno di Nunù» disse il matto toccandosi il naso.
L'orologiaio si slacciò i primi due bottoni della camicia.
« E quello chi sarebbe? » Indicò lo schizzo di colore sotto la torre.
« Il maestro delle campane. »
« Sono tutto rosso. »
Nunù gli si avvicinò. E la sua mano fu un fulmine: tirò la barba sul mento del vecchio. La tirò una, due volte. «La faccia è tutta rossa! » Ridacchiò.
« Nunù! » gridò la zoppa.
L'orologiaio si strofinò il mento. Teneva gli occhi chiusi, la testa in avanti. Fu in quel momento che lei vide qualcosa che brillava, qualcosa appeso al collo del vecchio. Una collana, sottile. Usciva dalla camicia slacciata di due bottoni e si appoggiava sul cotone. Era d'argento e con un pendaglio non tanto grande che adesso dondolava. La zoppa lo fissò ma il vecchio raddrizzò la schiena e quel luccichio tornò a nascondersi.
« Non ci siamo Nunù » fece l'uomo alzando il foglio.
Lei si avvicinò al tavolo dei gomitoli. Si sedette, con il suo disegno steso sulle gambe, Osservava Nunù che in un istante era diventato di gesso. Non si muoveva, fissava il vecchio con gli occhi semichiusi e la bocca storta da una parte.
« Non va bene, hai usato il rosso. »
« Il rosso » e il matto indicò ancora la barba dell'orologiaio.
« E' vero, la mia barba è rossa... Ma quali colori avevi scelto tu? »
Nunù aprì un pugno, le due matite rotolarono di poco sul palmo.
« Il blu e il giallo » disse il vecchio.
« Blu e giallo » ripeté lui.
« Il rosso non era il tuo. »
Il matto si buttò sulla poltrona con le braccia incrociate e il viso rivolto al vetro.
L'orologiaio andò da lui e si chinò: « Però è davvero bello. Ma le mie gambe sono così corte? »
Il matto annuì. Un secondo dopo era già in piedi e correva attorno al tavolo dei gomitoli. «E' bello! E' bello! » gridava.
« Vieni Nunù, vieni qui da me » lo chiamò il maestro.
Il matto rallentò e quando gli fu vicino, si accorse che il vecchio bagnava un pennino in un calamaio. L'orologiaio glielo mise in una mano e con le sue dita strinse il suo pugno. Lo guidò fino al foglio.
« Adesso devi scriverci il tuo nome. »
« Nunù » fece il matto.
Lo scrissero insieme.
In quell'attimo la zoppa sollevò il suo disegno. Le era rimasto sulle gambe e pesava come una pietra.
« E tu cos'hai disegnato? » disse l'orologiaio.
La zoppa lasciò il foglio sul tavolo.
«E brutto! » fece il matto.
« Sono io il maestro ! »
« Ecco maestro Gustave. »
« Fammi vedere. » L'orologiaio fissò il foglio e senza staccare gli occhi si sedette. Si chinò in avanti come non vedesse bene, sfiorando la carta con il naso schiacciato. « E notte, c'è la luna » disse a bassa voce.
La zoppa dondolava la gamba forte. La fermò quando si accorse del ciondolo di nuovo sospeso a mezz'aria. Era una rosa. Una piccola rosa d'argento. Come quella della donna ritratta nel quaderno verde.
« L'orologio dice che sono le due della notte» fece ancora lui e si voltò verso di lei.
« Sì, maestro Gustave. » Non riusciva a staccarsi dal ciondolo. I petali erano rovinati, e l'argento era sbiadito e vecchio.
« Avvicinati » le disse.
Lei strisciò la sua sedia fino a quella dell'orologiaio.
« Siediti » esclamò lui prendendo fuori la scatola in legno delle matite. « La piazza è più bella con il buio e il silenzio. » Le strizzò un occhio.
Sorrise.
« Di notte non c'è nessuno e io salgo sulla torre e guardo tutto dall'alto. » Le mise una matita davanti.
« Dalla torre? »
« Dalla cima della torre vedo R. che dorme e il bosco e il fiume e anche più in là. »
« E tu non dormi maestro? »
« Dormo nella torre se voglio. »
« Nella torre?» domandò il matto dalla poltrona. «Anche Nunù vuole entrare nella torre! »
« Se fai il bravo e ti impegni. » Il vecchio si voltò verso la poltrona.
« Nunù è bravo! »
L'orologiaio tossì e rise. Poi trascinò la sedia di lei ancora più vicino. Le sussurrò:
« La notte più bella per la piazza è quella che precede la grande festa » e le offrì una matita.
La zoppa prese tra le mani il rosa.
« Manca qualcosa. » L'orologiaio picchiettò con l'indice sulla figura al centro del disegno.
Lei guardò la piazza che aveva disegnato.
« Qui, proprio qui. » Il dito del vecchio coprì il segno dell'unica gamba.
La zoppa abbassò il viso. Lo rialzò e l'uomo le sorrideva. « Finisci il disegno. »
Fece un'altra linea. Un tratto lungo e solo alla fine un po'"curvo. Più sottile del tratto a fianco. Adesso le gambe erano due.
« Brava» disse il vecchio prendendo il pennino accanto al dipinto di Nunù.
« Posso disegnare la piazza come nella grande festa? »
Il vecchio annuì e già lei sporcava di rosa la carta che si riempì del grande palco, dei banchi con la lana, dei cesti con la lavanda, dei tavoli con i dolci e dei drappi quadrati. Nell'angolo, vicino alla torre, scarabocchiò una nuvola rossa con un corpo tondo.
« Chi è quello? » chiese l'orologiaio.
« Sei tu maestro Gustave. »
« Basso e grasso. » Lui si appoggiò le mani sulla pancia e il ciondolo fece un balzo dalla camicia.
Nunù andò con il viso vicino alla zoppa, così vicino che lei indietreggiò un poco con la testa. Si bloccò e all'improvviso l'abbracciò, la strinse forte e le disse:
« E' bello ».
« E' la notte della grande festa! » fece lei mentre sventolava il foglio e sobbalzava sulla sedia e le braccia del matto si avvinghiarono ancora di più intorno alle sue spalle.
« Maestro...»
« Cosa c'è? »
« E' vero che sono stata io che ho fatto la disgrazia? »
Il vecchio si girò di scatto e la guardò.
« La zoppa ha ucciso le pecore. » Il matto annuì e indicava la gamba debole.
« Le pecore sono morte prima che tu nascessi. Tu non hai fatto nessuna disgrazia.» Fu allora che il vecchio mise il pennino e il calamaio davanti a lei. « Ora scrivi il tuo nome » le disse poi.
Sentì Nunù che lasciava la presa. In uno scatto lo vide sedersi lì a fianco, gli occhi spalancati verso il vecchio che si avvicinava e che l'avvolgeva da dietro.
« Ecco » disse l'orologiaio. E le guidò la mano fino all'inchiostro. Immersero una, due volte il pennino e lo rivolsero all'angolo del disegno.
Lei fermò la mano. La punta sporcò il bianco della carta con piccole curve nere. Lui le raddrizzò la presa e sussurrò: « Scrivi il tuo nome ». E dopo quelle parole lasciò la presa.
Così lo scrisse. Poline.
Per lui non fu più la zoppa. Da quel giorno fu Poline. Così quel nome iniziò a suonare nella stanza della finestra. Riempiva le pareti e correva per il pavimento, entrava nella camera dei suoi genitori, scendeva fino al grande tavolo, si appoggiava alle orecchie di Nunù e di suo padre. E tutte le volte che il vecchio la chiamava era come se neanche il silenzio si fosse ancora abituato a sentirlo.
« Poline, vieni» le disse anche quel pomeriggio. Le fece segno di raggiungere lui e Nunù al vetro.
La zoppa saltellò e quando fu alla finestra guardò il palco sotto la torre: c'era suo padre e passeggiava avanti e indietro, le mani che si muovevano in aria.
« Prova il discorso di domani » disse e si stiracchiò.
Questa volta non c'era sua madre accanto a suo padre, pensò la zoppa. La vigilia della festa lei l'aveva sempre vista che lo accompagnava sul palco, lo seguiva per i tavoli dei dolci, dentro ogni casa. Gli diceva quale vestito mettersi e la sera prima lo ascoltava ripetere il discorso. Ma quell'anno no, sua madre non si era mossa da casa. Era rimasta seduta di fronte all'arcolaio, era rimasta zitta anche quando Jeanne e Marie erano entrate e avevano appeso lo stemma di R. alla sua finestra.
« Il fornaio con la testa che brilla e la moglie tonda! » cominciò a urlare il matto.
La zoppa lasciò quei pensieri, guardò laggiù.
Nell'orologiaio la risata si confuse alla tosse. « E chi sono la testa che brilla e la moglie tonda? »
« La testa che brilla, la moglie tonda... » Nunù indicò
Saliou e la moglie che a braccetto si avvicinavano al palco di legno. Il sindaco si accorse di loro.
« Anche da piccolo il fornaio aveva pochi capelli,., e anche sua moglie, grassa come adesso ! » fece il vecchio mentre schiacciava un pugno contro il palmo.
« Sono tuoi amici loro? » La zoppa si aggrappò alla manica della sua giacca leggera.
« I bambini della scuola sono i miei amici. »
« Quelli bravi? »
Rise. « Certe volte chi è meno bravo è molto più mio amico. »
« Il figlio del fornaio è bravo? »
L'orologiaio la fissò: «Marcel è bravo ed è molto simpatico agli altri bambini della scuola ».
Lei si infilò un dito tra le labbra. «E la bambina bionda con le trecce è brava? »
« Lei... » e cercò nella sua mente. « Lei è molto, molto brava. »
Lui si accovacciò, mise la mano sulla spalla della zoppa. E con uno scatto la sollevò da terra. «Ma anche Poline è brava, anche Poline» disse e lei gli si strinse al collo e insieme cominciarono a girare. « Anche Nunù, anche Nunù! » gridò il matto. Allora l'orologiaio si fermò, si caricò il matto sul braccio libero e ricominciò a danzare.
« La polvere dolce dovevo dartela io, di nascosto da tuo padre, di nascosto, »
Il maestro delle campane si appoggiò al tavolo. La sua testa non voleva star ferma, girava tutta, e le gambe ci misero un po'"a non muoversi più. Con gli occhi andò al corridoio.
« Mamma » fece la zoppa.
Sua madre si tormentava le mani e il bianco del viso si scontrava con il verde del vestito lungo.
« Mamma » ripeté lei.
« Quante pene ti avrei risparmiato figlia mia. »
Il vecchio li lasciò a terra. Il matto si buttò sulla poltrona e prima ancora di sedersi si tappò le orecchie con i palmi. Lei, invece, restò lì.
«Durante le poppate, magari il primo giorno. Sì, il primo giorno era la cosa giusta da fare. Ma non ho avuto il coraggio... mi dispiace, mi dispiace. »
La zoppa si accucciò contro la pancia dell'orologiaio.
« Basta Odette » fece il vecchio. « Basta » ripeté.
«Quando sei nata, non hai mai pianto, neanche un vagito. Ti hanno messo accanto a me e tu mi guardavi con quegli occhietti asciutti...» Parlò pianissimo. «Eri così piccola ma già sapevi che quelle lacrime te le dovevi conservare per il resto della vita. »
L'orologiaio avanzò.
« Ti abbiamo subito avvolto nella lana malata. E io vi guardavo, due disgrazie insieme. »
La zoppa chiuse gli occhi. Quando li riaprì c'era il maestro che provava ad abbracciare sua madre, i pugni impazziti della donna che piovevano sul petto del vecchio.
« Odette!»
« Tu almeno quel coraggio l'hai avuto, Gustave! »
« Basta Odette, basta! » La voce dell'uomo fu così forte che per lo spavento anche la zoppa strillò e strattonò il matto.
« Perché non sei venuto a darmelo quel coraggio, perché? »
« Basta » disse il vecchio e le sue parole si ascoltavano appena. Si scostò e adesso i loro corpi erano in corridoio, solo il matto riusciva a vederli. La voce del maestro delle campane bisbigliava mentre stringeva la donna alle spalle e sui fianchi. E il pianto non c'era più, rimaneva il respiro affannoso di lei che diceva ancora: « La polvere dolce, la polvere dolce ti avrebbe addormentata... »
Un momento, poi lui la accompagnò alle scale. E insieme scomparvero.
Quando l'orologiaio tornò, erano alla finestra.
La zoppa lo guardò: il vecchio aveva gli occhi piccoli e un po'"lucidi. Le pieghe del sorriso li schiacciavano contro le sopracciglia.
« Io faccio piangere mamma. »
« No, Poline. E'...»
« Sono io invece! Io! » Se ne stava nell'angolo e batteva a terra il piede curvo. « Sono io. »
L'orologiaio la portò a sé e lei gli bagnò il petto. Tirò fuori un fazzoletto dalla giacca e glielo strofinò sulle guance, sulla fronte, sul naso, sul collo. Si fermò e ricominciò, la zoppa sorrise e allora il fazzoletto continuò a posarsi veloce sul suo viso.
« Mi fai il solletico » sorrise.
« Ho qualcosa per voi due » fece il vecchio.
Nunù sgranò gli occhi.
Lei si asciugò gli occhi con le mani. « Che cosa, maestro? » domandò con la voce roca.
L'orologiaio si mise a rovistare nella sacca. Tirò fuori due pacchi avvolti in una carta arancione che scricchiolò appena toccò il ripiano.
« Questo è per te, Nunù. » E gli diede quello più grande.
« Per Nunù » farfugliò il matto.
L'altro lo spinse piano piano fino a lei.
Il matto lo scrollò, ne sentì il profumo, lo ascoltò. Poi slegò il filo di corda che lo teneva chiuso, srotolò la carta. La zoppa provò a fare lo stesso ma le sue dita maldestre strapparono l'involucro. Rimase a fissare il tessuto sottile e ripiegato che la carta nascondeva. Era di un rosso scuro. Lo tastò, ruvido e fresco, e in alcuni punti il rosso non c'era più, c'era il giallo di certi fiori. Prima di spiegarlo, alzò la testa. Guardò la bocca seria del maestro delle campane, poi quella allegra del matto. In testa Nunù portava il regalo: un cappello di paglia che gli stava a pennello. Aveva una visiera corta, che girava tutt'intorno, e sulla punta una spiga secca di lavanda appuntata. Gli copriva metà fronte e senza capelli arruffati gli occhi di Nunù erano due punti azzurri ancora più grandi.
« Ho vinto io, ho vinto io! » faceva il matto saltando.
« Cos'hai vinto? »
« Gli zuccherini » disse e ridacchiava.
Il vecchio lo afferrò per un braccio e aspettò che Nunù si calmasse. Poi gli aprì la mano davanti, sul palmo erano sparsi tanti minuscoli bottoni bianchi.
In un baleno il matto ne arraffò un pizzico e se lo mise in bocca. Poi si buttò sulla poltrona, il cappello steso sul viso.
« Prendi... » disse anche a lei.
La zoppa scelse due zuccherini e li appoggiò sulla lingua. Bruciavano appena, ma si scioglievano subito e il sapore dolce e di frutta le fece socchiudere gli occhi. Con quel gusto addosso si scostò dalla sedia e sulle gambe aprì il suo regalo. Il rosso scuro si allargò e ai fiori gialli si aggiunsero anche i fiori blu. « La mantellina...»
« L'ha tessuta Marie. Con un velo di lana magica che le era rimasta. »
« La lana magica...» bisbigliò. La sentì sulla pelle. Leggerissima, ricopriva subito la pelle di un leggero tepore. Ci mise il naso dentro: era vero, profumava di un fiore e il suo colore brillava come colpito da una luce. Se la appoggiò sulle spalle e l'allacciò.
« Sei una bambina molto elegante » fece l'orologiaio e le lasciò spazio.
Allora lei puntò il piede forte e cominciò a saltare e a fare piroette. E la mantella si alzò, si alzò e svolazzò altissima.
« E' uguale a quella delle bambine della scuola, è quella delle bambine della scuola!» Sorrideva.
« E' quella. »
La zoppa continuò a danzare finché la testa le girò, così si aggrappò all'infisso della finestra. Guardò i bambini che correvano e le donne che finivano di sistemare la lavanda nei cesti e i gendarmi sotto la torre. Mancava suo padre, il palco si era riempito dei musicisti della banda che parlavano fitto fitto. Dalla via delle botteghe si vedevano i primi banchetti che traboccavano della lana malata di R. Lì accanto, vicino alla torre, l'albero dei premi aveva il tronco coperto da una stoffa arancione e dai rami pendevano già i lacci di corda. E i brusii erano soffi di attesa che si stendevano ovunque.
La sera prima di ogni festa, R. si riuniva nella piazza. Il vociare era un tappeto fitto che all'improvviso taceva, quando dalla via della scuola arrivava Padre Carl. Gli abitanti lo guardavano salire sul palco, poi si incantavano sulle sue mani che come i petali di un bocciolo tardivo si dischiudevano su di loro. Quelli erano i gesti della speranza, la preghiera perché la valle accorresse e R. ritrovasse il suo lustro. Il prete recitava, agitava le braccia e la sua veste lo seguiva nella danza. Teneva gli occhi socchiusi, e quando finiva di chiedere al Cielo pronunciava la frase della vigilia: « Che sia di ogni bellezza ». Allora prendeva la lana che una filatrice gli porgeva, la lana malata di R. La benediceva e la levava sopra la testa e tutti in coro ripetevano:
« Di ogni bellezza ».
Dalla finestra la zoppa vedeva suo padre che abbracciava il prete in mezzo alle persone. Non erano amici loro due, le aveva detto sua madre prima che si ammalasse. Padre Carl era stata la persona più cara a suo nonno, e insieme avevano governato R. come meglio non si poteva. Lei non lo aveva mai visto da vicino, né la sua faccia bianca e liscia, né la croce d'oro appesa al collo che ogni tanto luccicava. Solo una volta si erano guardati, quando lui si era fermato davanti alla torre e lei non era riuscita a nascondersi in tempo. L'aveva fissata per un istante e dopo aver toccato il crocifisso si era diretto verso la via delle botteghe.
Quella sera suo padre rientrò subito. Salì le scale che ancora la folla era stretta attorno al prete. Sistemò Nunù con il cappello di paglia sulla poltrona, poi accompagnò la zoppa a letto. Mentre lei si cambiava lui accarezzò la mantella: «Marie è stata proprio brava» disse. E la baciò, rimboccandole il lenzuolo.
« Domani mi porti i dolci allo zucchero? » gli chiese lei quando suo padre era già alla porta.
« Certo. »
« Anche i dolci neri al miele? »
« Anche quelli, e anche il succo di uva... »
« Papà? »
« Cosa? »
« Posso vedere la festa dalla porta di casa? »
Il sindaco si tolse gli occhiali. Li ripose nel taschino del panciotto. «Dalla finestra, dalla finestra si vede tutto. »
« Dalla finestra è lontano » mormorò la zoppa.
Suo padre si alzò in piedi. « Lo so » disse. Poi prese la lampada in mano e uscì dalla camera.
La zoppa rimase con la guancia attaccata al cuscino. Sentiva il respiro che usciva dal naso e sbatteva contro il lenzuolo, un picchiettio di scarpe nel corridoio e la voce di sua madre per un attimo. Fuori il vociare si attenuò, scomparve.
I rintocchi del riposo coprirono il paese, ordinati e secchi. Dalla torre si mossero nel buio, entrarono nella sua camera. Le andarono addosso.
La zoppa sollevò le palpebre e appoggiò la schiena alla spalliera del letto. Si tolse i capelli dal viso e il lenzuolo dalle gambe. Rimase così, con la camicia lunga che le scopriva le caviglie e la calza sottile da notte che le avvolgeva il piede curvo. Aspettò che tornasse il silenzio e quando lo sentì arrivare scese dal letto. Si strinse nella mantella di lana magica e senza stampelle uscì dalla camera. Zoppicò fino alla stanza della finestra, lo sguardo fisso alla porta chiusa della camera dei suoi genitori. Il russare sottile del matto la guidava nel buio. Nunù aveva la testa appoggiata a un bracciolo. Aprì gli occhi quando lei gli passò accanto, e le fu subito dietro con il cappello di paglia stretto a metà fronte. La zoppa gli fece cenno di stare zitto.
Quella notte la piazza aveva solo due colori. Il nero della notte e il giallo dei lumi. I tavoli, i cesti e le bandiere appese alle case vecchie dormivano. Non c'era nessuno, l'orologio segnava le dieci e quaranta della vigilia.
Si spinse fino al corridoio, il matto accanto, e quando provò a scendere il primo gradino lui le agguantò il braccio.
« Ti prego, ti prego » bisbigliò.
Ma lui non si staccava.
« Nunù » gli sussurrò ancora.
Non la lasciò.
« Nunù vieni. » A quelle parole lui allentò la presa. Poi portò le sue mani dietro la schiena. E scrollò la testa.
« Vieni Nunù. »
Il matto corse via. Lei lo trovò alla finestra, i palmi premuti alle orecchie. « Gli uomini guardano » diceva. « Non ci sono gli uomini. »
Ma Nunù scivolò a terra e cominciò a chiudersi.
Allora lei non disse più nulla. Andò agli scalini, il respiro di suo padre bucava la porta chiusa. La zoppa cominciò a scendere piano le scale e in fondo si appoggiò al tavolo. Alzò gli occhi alla stanza in ordine per la grande festa. L'arcolaio non era là, e neanche la lana nel cesto. Il camino era tutto pulito, non c'era cenere e brace e il piano per cucinare era vuoto. I coltelli e gli utensili appesi al muro erano scomparsi, così come il pane coperto dalle pezze di cotone. Ma sullo scrittoio ogni cosa era al suo posto: i ritratti di suo nonno e di sua nonna, la penna d'oro e quella d'argento, i fogli e l'orologio che faceva rumore. Il ticchettio l'accompagnò per tutto il tempo che impiegò per far scattare il chiavistello alto e quello basso della porta. Smise di ascoltarlo appena il piede nudo schiacciò i ciottoli tiepidi della piazza.
« Oh...» Il petto scoppiò. L'aria calda le gonfiò la camicia da notte e la pelle si destò all'improvviso come dormisse da sempre. Si accucciò: « Io... » disse. E nella pancia una scossa salì fino alla testa. « Io sono alla grande festa. » Fece un giro su se stessa e il sudore alla schiena si raffreddò pian piano. Sorrise e si tappò la bocca mentre guardava le file dei tavoli ancora sparecchiati e i cesti di lavanda secca. Saltellò avanti, ancora avanti. Si fermò davanti alla fontana che buttava un filo d'acqua, a dieci passi da lei. Tornò al muro di casa e si accovacciò a guardarla: la piazza era così grande, grandissima, e i lumi dall'altra parte erano lingue di fuoco troppo lontane. Alzò gli occhi all'orologio che il buio cancellava a metà, poi li abbassò al portone chiuso della torre. Si avvolse meglio nella mantellina e con lo sguardo andò alla via della scuola, dove iniziavano le lunghe file di drappi. Prima di muoversi alzò la testa, ancora, fino alla sua finestra. Fu in quel momento che sentì degli zoccoli battere contro i ciottoli e delle voci leggere che si avvicinavano. Due gendarmi conducevano a mano i cavalli. La zoppa scattò veloce ma cadde, un ciottolo le consumò la pelle del ginocchio. Si rialzò in piedi, poi fece un balzo verso la porta. Ci si nascose dietro e con gli occhi rimase allo spiraglio che dava sulla piazza.
« Dio non ci abbandonerà, domani verranno in molti, in più dell'anno passato... » diceva una voce.
« Il lustro tornerà, dobbiamo avere fede» diceva l'altra.
Li vide passare. Uno era il gendarme biondo, l'unico uomo che Marie faceva entrare in casa. Aspettò che sparissero nella via della scuola, con le loro divise tutte blu.
La zoppa tornò fuori solo con la testa. La piazza era deserta, i rumori non c'erano più.
Uscì e seguì la striscia dei tavoli uno dietro l'altro. Superò la facciata rossa della sua casa e quella marrone del capo dei gendarmi. Si fermò. L'albero dei premi era lì, all'inizio della via delle botteghe, molto più vicino. Fece altri due passi, poi ascoltò un colpo secco. Un altro ancora. Qualcosa cigolò. Il portone della torre si aprì, l'orologiaio corse da lei.
« Poline. »
La zoppa si voltò. E iniziò a correre, a correre.
« Poline. »
« Mi hai visto. »
Lui indicò la torre. Poi tirò fuori un fazzoletto dalla tasca. Lo avvicinò alla gamba sbucciata.
Lei si ritrasse.
Il vecchio la tenne ferma e le pulì la ferita al ginocchio. Con una mano le portò via un po' dello sporco sotto il piede.
« Maestro Gustave... La piazza... » e non disse altro.
« Si, è grandissima. » La prese in braccio e si diresse verso la casa del sindaco.
« No maestro, no! » La zoppa s'inarcò per vederlo in viso. « Portami alla via delle botteghe, io non l'ho mai vista la via delle botteghe. »
L'orologiaio la strinse di più tra le braccia. E cambiò passo. « La via delle botteghe, così sia. »
Ora le braccia del vecchio erano una culla e la zoppa si lasciò cullare mentre guardava tutt'intorno. Le pietre della torre diventavano grandi come un monte e le pareti delle case avevano colori che lei non aveva mai visto. Com'era stretta la via delle botteghe! Era un serpente lunghissimo senza fine.
« Tocca a te, Poline. » L'orologiaio si fermò proprio sugli ultimi due ciottoli bianchi, sotto l'albero dei premi.
« Oh» disse la zoppa senza fiato. Si sentì sollevare. «Maestro, maestro!» strillava e intanto saliva in alto, sempre più in alto, fra i rami e i lacci di corda bianca con il nodo in fondo.
« Prendi il laccetto! » fece il vecchio.
Lei lo tirò, si aggrappò e il ramo si scosse. Tirò ancora, gli occhi strizzati mentre le foglie frusciavano.
« Hai vinto, hai vinto Poline » le sussurrò.
« Ho vinto...» E le risa l'avvolgevano, gli applausi non finivano e R. diceva: «Brava, brava! »
« Lassù, la mia casa è lassù » fece l'orologiaio e indicò la via delle botteghe.
La zoppa osservò dove il dito puntava, dove il buio nascondeva anche la luce dei fuochi. C'era solo notte, là. « Non hai paura maestro Gustave? » Lo abbracciò forte al collo. La collana sottile s'impigliò tra le dita.
Il vecchio scosse la testa e si addentrò in un sentiero che passava tra le case. La stradina si allargò d'un tratto in uno spiazzo: lì un lampione illuminava un cancello di ferro che proteggeva una grande casa marrone.
« Maestro Gustave?»
Il vecchio annuì. « E la scuola » disse e la fece scendere. « E la scuola, vieni Poline.»
Lei restò incantata, le dita attorcigliate alle sbarre del cancello.
Il vecchio la sollevò di nuovo.
« Maestro Gustave, qual è la stanza dei bambini? »
« Al primo piano » rispose a mezza voce per lo sforzo.
« E qual è il banco della bambina bionda con le trecce?»
« Proprio di fronte a quella finestra » e gliela mostrò. « E vicino a lei siede Marcel, il figlio del fornaio. »
La zoppa corse lungo la staccionata che la recintava. « Qual è il mio banco se vengo alla scuola? » Si aggrappò di nuovo al cancello.
« Dobbiamo andare, Poline. »
« Giocano qui i bambini? » E indicò il fazzoletto di erba.
L'orologiaio fece di sì con la testa.
« Anche io voglio venire a giocare alla corda con loro! »
« Andiamocene a casa. » La sollevò e le sue gambe ora si muovevano svelte.
« No maestro! Voglio vedere com'è dentro, portami dentro maestro Gustave, ti prego! » Ma intanto avanzavano tra le bancarelle vuote che all'alba si sarebbero riempite di lana sbagliata.
« Non possiamo, le chiavi le ha il maestro Bulbon. »
« Ti prego...» La zoppa si voltò verso la scuola che diventò sempre più scura finché sparì del tutto nella notte. Non finì di guardarla che la via si incrociò alla piazza. Sulla destra, ad angolo, la casa bianca della bottegaia aveva appuntato sulla porta un fiore secco.
L'orologiaio si bloccò e con uno scatto si nascose nell'ombra nerissima tra il muro di Marie e quello a fianco. « Cosa c'è maestro? » chiese la zoppa.
« Zitta » disse lui, e le schiacciò una mano sulle labbra. Poi la mise a terra.
Al centro della piazza i due gendarmi accompagnavano i cavalli a mano.
L'orologiaio spinse la zoppa nell'angolo. «Non ti muovere » disse. E quando i gendarmi si avvicinarono si mostrò alla luce.
« Chi va là? » domandò il gendarme biondo con la mano sulla cintura.
« Sono io » tossì. « Io. » Alzò un braccio.
Le redini dei cavalli restarono nelle mani dell'altro gendarme. Il biondo si tolse il cappello.
« Gustave. »
« Pierre. »
« Cosa ci fai in giro a quest'ora, Gustave? »
L'orologiaio fece un passo avanti. Ora la zoppa poteva spiare solo i cavalli e il gendarme silenzioso.
« Sai com'è Pierre. » Tossì di nuovo. « Mi godo un po'"di silenzio e dimentico le voci del giorno. »
« I bambini...» disse il gendarme e un angolo della bocca si sollevò.
« Non c'è giorno che la loro voce... un po'"di pace non mi fa male di certo. »
« E come non bastasse... adesso hai preso anche la figlia di Jerome. »
« E' una bambina molto sveglia. »
Restarono zitti.
« E' lui, il figlio del matto, ha davvero la testa vuota come il padre? » Il gendarme con i cavalli sghignazzò.
« E chi lo dice che l'avesse vuota? »
Il biondo tornò al suo cavallo. « Gustave? » domandò.
Il vecchio alzò il mento.
« E' vero di Odette? Che ha la stanchezza? »
La zoppa si schiacciò contro il muro, si tirò la mantella fino al naso.
« Di certo è cambiata. »
I due uomini si fissarono.
« Allora buon riposo, Gustave. »
« Buon riposo » disse l'altro che non aveva mai parlato. La voce era grossa e rauca, pareva innaturale in quella corporatura esile.
« Buona serata a voi. »
La zoppa ascoltò gli zoccoli che battevano sui ciottoli. Aspettò, gli occhi spalancati che spuntavano dal groviglio della mantellina finché il rumore dei cavalli diventò più debole. Poteva vedere l'orologiaio, era fermo alla fontana, piegato al filo d'acqua che gli bagnava la barba. Seguì il muro levigato della casa e quando arrivò in fondo le si aprì l'intera piazza. I due gendarmi erano lontani. Guardò l'orologiaio, guardò loro. Mise giù il piede curvo, e corse. «Maestro, maestro...» diceva ma la voce non usciva, rimaneva in gola e la gamba curva e più corta la faceva ondeggiare. Una piccola, lenta macchia rossa che annaspava tra i fuochi vivi che la circondavano.
L'orologiaio le andò incontro. Le offrì le braccia che l'avvinghiarono e la portarono in alto. La zoppa gli si buttò al collo. «Maestro... » fece con le parole strozzate dalla corsa.
Lui la strinse. « Andiamo » disse poi. Tagliò la piazza con la sua camminata goffa e la condusse alla porta di casa. Mentre la metteva giù, l'orologiaio e la zoppa alzarono gli occhi alla finestra: l'ombra del matto saltellava nel buio.
« Guarda, l'hai lasciato aperto » mormorò la zoppa quando i piedi toccarono i ciottoli. E indicò il portone della torre chiuso a metà.
Lui si voltò: «Non importa, nessuno del paese ci vuole entrare ».
« Perché? »
« Hanno tutti paura di qualche topo e di un po' di buio. Vai adesso. »
La zoppa sollevò la gamba debole ed entrò in casa. « Buona notte maestro Gustave.»
« Buona notte Poline » rispose e si lisciò la barba del mento. Il sorriso gli strinse gli occhi che si piegarono all'ingiù.
« Maestro Gustave? » fece sottovoce.
L'orologiaio le fece un cenno.
« Cos'è la stanchezza? »
Lui smise di frugare nelle tasche, il suono leggero delle chiavi finì. « È quando sei un po'"triste. »
« Mamma ha la stanchezza? »
« Si. Ma passa presto. » Rimase in silenzio. Estrasse l'orologio, lo fece scattare. Poi andò a un cesto di lavanda. Pescò una spiga. « Buon riposo » disse, e le pizzicò il naso con la punta.
La zoppa rise, poi socchiuse la porta. Si chinò per abbassare il gancio ma non lo fece. All'improvviso fu di nuovo in piedi, il viso prima alla piazza e subito al cielo. La cercò là in alto, la trovò: la luna non era mangiata, ma tonda e grande. Era mille lumini messi assieme.
E suo padre quella mattina fu un alito di vento che soffiò improvviso tra i ciottoli ancora vestiti a festa. La zoppa lo vide attraversare la piazza deserta che taceva, abbandonata.
« Papà! » Saltellò fino al corridoio, passò davanti alla porta chiusa della camera di sua madre. Scese i primi due gradini e si sedette. Quando suo padre entrò non si accorse di lei. Si mise al tavolo di legno nero, la testa tra le braccia, le mani sulle orecchie.
« Papà » fece lei alzandosi in piedi.
Lui sollevò la testa, si aggiustò gli occhiali un po' storti. Sorrise e la raggiunse sui gradini. «Cosa fai qui? » le domandò e la trascinò sulle sue gambe.
« Ti guardo. »
La baciò sulla testa.
« Ti è piaciuta la grande festa ieri, papà? »
La strinse a sé.
Dei colpi alla porta, qualcuno bussò.
E subito lui sollevò in alto la figlia e la fece scendere sul primo gradino. « Adesso vai » le disse. « Vai, ti prego. »
Così lei andò. Tornò nella stanza della finestra, e da lì aspettò che la porta venisse aperta. Poi subito saltellò fino al corridoio, si appoggiò al muro e sporse la testa verso il fondo delle scale.
« Salve Jerome. »
« Salve Gustave. I bambini ti stanno aspettando. »
L'orologiaio si avvicinò al tavolo di legno nero. La zoppa riusciva a vedere la sacca dietro le spalle. « Non si danno pace per la festa. Si stupiscono ancora che dalla valle vengono sempre in meno. Continuano a dire "Eravamo soli, R. era solò. »
« Non si daranno mai pace. »
« Il Consiglio ti ha convocato? »
« Già » rispose il sindaco con un filo di voce.
« Non aspettavano altro. »
« Gustave? »
Il vecchio lo guardò.
« Ti occuperai di Poline e Nunù? »
L'orologiaio alzò gli occhi al sindaco. Gli prese un braccio.
« Prenditi cura di loro. E di Odette. »
Il vecchio annuì. « Lo farò, Jerome. »
Lei si acquattò al muro, poi si voltò di scatto verso la camera dei genitori. Sua madre era sulla soglia, gli occhi spalancati e le mani che grattavano la vestaglia slacciata.
L'orologiaio e il sindaco si avvicinarono ai gradini, ne salirono uno, ancora uno. Lanciarono un'occhiata a lei che saltellò verso suo padre.
« Aiuto! » esclamò Nunù dalla stanza della finestra.
« Salve, Odette » disse il vecchio alla donna che avanzava verso di loro.
Sua madre si tormentava la camicia da notte tra le dita, l'attorcigliava, la strozzava. Era un velo bianco, leggero che sfiorava le caviglie e arrivava a metà delle braccia e più lei lo stropicciava più quello si avvolgeva ai fianchi ormai d'ossa. Saliva fino al collo e lì due lacci lunghi e sottili si confondevano con le pieghe, interrotte sul petto dai seni rimasti grossi.
« Odette » fece suo padre.
La pelle bianca levigata non c'era più. Adesso era sudata, cosparsa di rughe fini e di rossori sul naso adunco e sotto gli occhi segnati. I capelli lunghi, radi e un po'"arricciati, lasciavano intravedere la cute bianca.
« Ti aspetta il Consiglio, vero?» disse sua moglie mentre lo fissava.
« Vieni Odette. » Il sindaco la prese per un braccio e cercò di condurla in camera.
« Ti aspetta vero? » I movimenti di lei erano lenti e a scatti. « Vero? »
Sentirono il matto nascondersi dietro la poltrona. La zoppa si aggrappò all'orologiaio che l'avvolse con un braccio.
« Vieni. » Il sindaco portò la moglie a fatica fino al letto.
« Jerome, tuo padre oggi è morto due volte » disse lei e la frase attraversò il corridoio. Poi la porta si chiuse.
Si riaprì dopo poco, quando il sindaco uscì e scese di fretta al piano di sotto.
« Il Consiglio vuole parlare con papà?» domandò subito la zoppa all'orologiaio.
« Disegnate ora, la grande festa...» L'orologiaio le andò vicino.
« Il Consiglio vuole parlare con papà, maestro Gustave? » insistette con le dita sulla scatola delle matite.
Il vecchio la fissò. E prese la sua mano, la strinse e insieme rovesciarono tutte quelle matite sul tavolo. « Si » disse poi, gli occhi che si sforzavano di sorridere.
« Alle sette» gli aveva detto Saliou e senza aggiungere nient'altro se n'era andato.
« Alle sette » si ripeté il sindaco mentre richiudeva la porta.
Quella sera, prima di andare, salì al piano di sopra. Portò con sé due piatti con la verza e le patate. Li sistemò sul tavolo che liberò dai gomitoli, dalle matite, dai fogli colorati. Prese la brocca dell'acqua dalla credenza, le due tazze, poi chiamò sua figlia e il matto che erano statue di pietra davanti alla finestra.
Si sedettero senza una parola. Il matto aveva la bocca già piena delle patate: prendeva un boccone di qua e uno di là, si versava da bere e lo trangugiava. La zoppa guardò suo padre e gli fece un sorriso grandissimo. Inclinò la testa, con gli occhi che seguivano la bocca felice, poi abbassò il viso e mangiò.
« Ci vediamo più tardi, non disturbate. »
« Il Consiglio ti vuole parlare papà? » La voce lo raggiunse nel corridoio, mentre era fermo davanti alla porta chiusa della camera da letto.
« Sono in ritardo. » E senza girarsi scese la scala.
All'Arco c'era il cambio dei gendarmi. Da lontano vide Pierre che lasciava il posto di guardia a Didier. Il ragazzo gli andò incontro, il passo svelto dei suoi stivali grattava contro la ghiaia grossa. Si incontrarono a metà della via che conduceva alla casa delle Decisioni.
« Buonasera, sindaco. »
« Hai finito ora? »
Il gendarme si tolse il cappello. « Sì. Nessuna spia da Lacroix » disse sorridendo.
« Ben fatto allora. »
Rimasero in silenzio.
« Vi stanno aspettando, vero? »
« Già. »
« La notte della vigilia ho incontrato l'orologiaio. Festeggiava da solo... Mi ha detto» fece una pausa, « mi ha detto che con vostra figlia va bene. »
Il sindaco annuì. «Se ha detto così allora... anche i bambini sono felici quando viene. »
Il gendarme si rigirava il cappello tra le mani.
« Devo andare Pierre. »
« Va bene. » Il gendarme gli lasciò via libera, poi aggiunse: « Buona fortuna ».
Il sindaco fece un cenno ai gendarmi di guardia che ricambiarono appena. E quando fu davanti alla casa delle Decisioni, rallentò. Tirò fuori l'orologio dal taschino. Lo aprì, dieci minuti dopo le nove. Lo richiuse e spinse la porta socchiusa.
Il brusio si interruppe. « Sei qui finalmente. »
Erano seduti uno accanto all'altro. Due file tutte occupate e una terza con Padre Carl, il suo vestito viola era un sole lucido che si stagliava dietro le loro teste.
Si slacciò il colletto e lasciò che il nodo del cravattino scendesse di qualche centimetro. Si appoggiò al tavolo. Lo stemma di R. non era più steso, ma ripiegato in un angolo.
Li guardò. Guardò Marie che lo salutò con due dita alzate e una timida smorfia della bocca. Guardò Joanne e le altre due filatrici a fianco del pastore. Il fornaio e sua moglie sedevano con le gambe incrociate, un braccio steso sullo schienale delle sedie. Bulbon si sistemò la giacca sulle spalle.
« Jerome» disse il capo dei gendarmi. «Jerome, eravamo poche anime, ancora meno dell'anno passato e... »
« Siamo solo miseria, Jerome. Solo miseria. » La vecchia filatrice si fece avanti con la testa. «Siamo come morti! »
« Ma non è solo questo » intervenne Saliou.
Li fissava. Quelle voci, una dietro l'altra e il fiato che rimaneva fermo nel suo petto.
« Il punto è che R. è ferito, R. è malato. »
« Malato » disse lui.
« Sì, malato Jerome. »
« Come mia figlia, vero? » Si aggiustò gli occhiali.
Loro si zittirono.
« Come il matto che tieni in casa. »
« Questo non ha niente a che vedere... » fece lui.
« Si, ha a che vedere con R. » sentenziò Padre Carl dalla terza fila. Staccò le mani dal crocifisso e si sporse in avanti, fissandolo dritto negli occhi. « Ha a che vedere con le regole che tuo padre e tutti noi, tu compreso, avevamo voluto per R. » La voce era debole e pacata. « Tu compreso » ripeté. « Ricordi Jerome? "Il Signore Nostro darà ciò che vorrà. E se ciò che vorrà sarà salute, R. renderà grazie ogni giorno. Ma se ciò che vorrà sarà disgrazia, R. addormenterà senza paura. I nostri figli e i figli dei nostri figli non conosceranno corpi e menti sfortunati, perché questi esisteranno solo per un respiro e in un respiro se ne andranno. Così sia per questo tempo e per tutti i tempi che verranno. Ricordi che c'era anche il tuo nome sotto quella Decisione? Non è solo dalle pecore avvelenate che è cominciata la disgrazia, è anche per quella regola che tu non hai rispettato che R. si è ammalato così. »
« Guarda tua moglie. Jerome. Guardala bene. Vuoi che R. arrivi a tanto? »
« Mia moglie... » mormorò.
« Tua moglie ha respirato la tua casa e si è ammalata. E' questa la fine che vuoi per R.? » esclamò Saliou. Bulbon annuiva.
« Come fai a non capire? » aggiunse la moglie del fornaio.
Lo azzannarono, alla schiena, alle gambe. Gli graffiarono lo stomaco, gli morsero il petto.
« Jerome, R. non c'è più» disse Saliou.
« Non è stata di certo una gamba a metà, o una testa che funziona meno ad averci tolto il lustro» disse la bottegaia.
« Marie! » si indignò Saliou.
« Non è una gamba a metà che... »
« Marie! » gridò la moglie del fornaio.
« Noi abbiamo rinnegato la purezza di Dio. » Padre Carl si alzò in piedi, aprì le braccia e la veste frusciò in un lampo di porpora: « Non è forse la purezza che un uomo, un paese deve cercare nella sua vita? Non è forse questa la sua missione? Il Signore Dio Nostro è la luce che scalda, ma è anche la luce che acceca. E chi non segue la Sua purezza non avrà più occhi per vedere ». Si mise a sedere. « Noi stiamo diventando ciechi, Jerome » concluse con un filo di voce, gli occhi sbarrati e le mani giunte.
« Dio non c'è anche in una gamba a metà? » La bottegaia avvampò in viso.
« Tu sei già cieca mia cara Marie. Cieca » inveì Padre Carl.
« Dio non c'è anche in una testa che funziona meno?»
« Marie, ti prego » la zittì il sindaco. « Ti prego. »
Presero fiato.
« Cosa volete dunque? » domandò Jerome, gli occhi al fondo della sala dove il libro che conteneva le Decisioni riposava chiuso su un leggio.
Bulbon sedeva sul bordo della sedia. Le gambe corte vibravano dal ginocchio fino al piede. Si schiarì la voce. « Saliou » chiamò poi.
Saliou il fornaio rimase con lo sguardo immobile. E parlò: « Vogliamo votare per un altro sindaco, Jerome ».
Bulbon si appoggiò allo schienale. «Vogliamo votare » disse intanto che annuiva.
Morsi, graffi.
Jerome prese a rovistare nella tasca dei pantaloni. Trovò quel che cercava, la pipa, e se la passò sotto il naso. « Votare? » fece, e la strinse tra i denti.
« Si, Jerome » disse il fornaio. « Il lustro per prima cosa. Parole di tuo padre. »
Jerome si tolse la pipa dalle labbra.
« Votiamo. » Saliou scattò in piedi e fu il primo a levare in alto il braccio.
Jerome abbassò il viso alle scarpe. La polvere della ghiaia era rimasta intorno alla suola. Un alone sulle punte, come un cerchio bianco che annebbiava il marrone della pelle. Alzò la testa, e le contò: cinque mani. Quella affusolata del fornaio, quella d'ossa di Jeanne, il palmo largo e tozzo di Bulbon e della moglie di Saliou. A mezz'aria la mano bianchissima di Padre Carl.
« Sono cinque alte e cinque basse » disse il fornaio.
Bulbon sbuffò.
« Sta al tuo gesto Jerome, metà del Consiglio te lo chiede. Ti chiediamo di farti da parte » disse il fornaio e tornò a sedere.
Il sindaco si mise la pipa in bocca. Il sapore del tabacco gli finì sulla lingua. Era amaro e bruciava. « Il mio gesto...» farfugliò e si tolse il bocchino dalle labbra. « Mi dispiace, il gesto non ci sarà. Non mi farò da parte. »
« Jerome, come puoi?! » gridò la moglie del fornaio che subito si zittì.
« La vera miseria di R. » fece una pausa e respirò «... non è nella sua lana malata... La vera miseria è in quelle croci in un angolo abbandonato del camposanto, quelle croci che R. pianta pregando Dio ogni volta che nasce una creatura sfortunata... E mia figlia.... Mia figlia è chiusa in casa schiacciata da quattro mura da quando è nata e quello che fa ogni giorno è accontentarsi di una finestra... E mia moglie è malata, Odette è malata perché chiunque vorrebbe vedere una figlia libera. » La sua voce non si fermò mai, un tono basso e costante che non dava tregua.
« Che il Signore ti perdoni, Jerome. » Padre Carl venne avanti, si diresse verso la porta, poi di scatto si avvicinò al sindaco. «Questo è stato il Suo sacrificio...» E levò dalle pieghe della veste la mano stretta al crocifisso. « Lo vedi? » Glielo mostrò. « E da qui che la purezza è scesa sugli uomini. E tu l'hai rinnegata. »
Le bestie serrarono le zanne nelle fauci chiuse.
« Il tuo Dio ha così paura di una gamba malriuscita? » Jerome parlò sottovoce.
« Il mio Dio è il tuo Dio. E adesso piange per ogni tua parola. Scusate. » Padre Carl inchinò la testa verso tutti loro. Andò veloce alla porta, la spalancò e uscì dalla stanza delle Decisioni con la fretta che gli gonfiava la veste.
Il cuore gli batteva in gola. Jerome lo sentì, si tolse gli occhiali, si asciugò la fronte nella manica della camicia. Si voltò verso di loro: Saliou adesso lo fissava. «Jerome...» lo chiamava ma lui guardò altrove, guardò Marie che teneva una mano dentro l'altra e il viso stretto rivolto alla finestra. La luce le colpiva la pelle e le accendeva il pallore sulle guance e sul collo. Aspettò che lei si accorgesse di lui e quando accadde, la bottegaia sorrise. Così poté tornare dal fornaio che ancora era lì e lo osservava. «Jerome...» diceva. «Jerome ascoltami, per il tuo bene, della tua famiglia. »
Chiuse le palpebre. « Non mi farò da parte. Un altro sindaco non cambierebbe le cose » disse e lasciò cadere la pipa nella tasca.
Il fornaio si passò una mano sulla testa lucida e sudata. Si alzò e se ne andò.
Dopo di lui, Bulbon, Joanne, uno dietro l'altro. Poi tutti gli altri tranne la bottegaia.
Marie lo affiancò, lui tirò fuori ancora la pipa dalla tasca, e dal panciotto i cerini. La fiamma accesa spruzzò in aria una piccola nuvola di fumo. Diede due boccate e quando alzò gli occhi, l'ascoltò. « Sarà difficile adesso. »
Rimase serio. Si lisciò un baffo e sussurrò: « Sarà difficile ».
Marie si avvicinò a lui. «Tuo padre sarebbe stato dalla loro parte. »
« Ma io non sono mio padre. Lui ha fatto cose buone, ma... »
« La polvere dolce. »
« La polvere dolce. »
Un'ombra entrò dalla porta.
« Chi va là? » domandò il sindaco.
L'ombra fu seguita da una divisa azzurra che vestiva un corpo alto e snello.
« Pierre. Vieni » disse il sindaco.
La bottegaia si scostò le trecce dal viso.
« Scusate, sindaco. Credevo foste solo. Scusate.» Pierre si tolse il cappello e fece per allontanarsi.
« Pierre, avanti.»
Il gendarme si bloccò e tornò sui suoi passi.
« Ecco... E che la porta era aperta. » Il ragazzo teneva lo sguardo al pavimento. Tutto il viso si era colorato di un rosa vivo. «Ho appena visto scappar via l'intero Consiglio. »
« Non hanno ottenuto quel che volevano » Jerome lo interruppe.
« Appena usciti ho visto il prete silenzioso e Bulbon che si agitava tra il fornaio e sua moglie... e dalle loro facce, insomma, ho capito. »
« Si agitava come? » chiese Marie.
Il gendarme e la bottegaia si fissarono.
« Muoveva le braccia ed era tutto paonazzo. Quando mi ha visto si è calmato di colpo. La sua testa sembrava sul punto di scoppiare tanto era viola... »
Marie si piegò sulle gambe e iniziò a scuotere mani e braccia: « Saliou, Saliou, come va Saliou? Hai bisogno di qualcosa Saliou? Vuoi che porti tua moglie in braccio fino al monte, eh Saliou? Me la carico addosso anche adesso se vuoi, che dici Saliou? Ti piace la mia giacca, l'ho appena fatta fare, è bella vero Saliou? » lo imitò con la voce grossa e le labbra un po'"in fuori.
Il sindaco e Pierre ridevano, anche quando lei tornò a essere Marie la bottegaia con gli occhi timidi.
« Marie... ma eri tu quella?» domandò Jerome.
« Era proprio lei » disse il gendarme.
Arrossì.
« E meglio che me ne vada, dopo quello che ho visto. » Strizzò l'occhio alla ragazza. « Arrivederci Pierre, arrivederci Marie. » Le accarezzò il mento. « Grazie. »
Lasciò la stanza delle Decisioni. Corse fuori, le gambe piene di fretta che lo portavano alla casa rossa. Rallentò all'Arco un istante, si voltò verso i due gendarmi di guardia. Loro lo videro e subito sbatterono i tacchi, la mano alla fronte come avevano fatto poche volte.
La zoppa cominciò a voler sapere del Consiglio che suo padre era ancora sulla scala. Sua madre era in piedi all'entrata della camera da letto, il suo viso era una linea tra la porta socchiusa.
« Papà » fece la zoppa.
L'orologiaio e il matto si voltarono verso il sindaco.
La donna venne avanti, aveva il vestito per metà slacciato. Il trucco era sceso su bocca e guance e le labbra erano colorate di marrone. « Ti hanno chiesto il gesto? » domandò sottovoce mentre si rigirava una collana tra le dita.
« Il gesto non c'è stato » disse il sindaco.
Allora la zoppa vide sua madre farsi il segno della croce e richiudere la porta dietro di sé.
Il vecchio continuò a seguire Jerome con gli occhi.
« Quando sei arrivato Gustave? »
« Poco fa, stavo leggendo una storia ai bambini. »
Il sindaco entrò nella stanza della finestra e appena si accorse di lui che lo guardava gli fece cenno di no con la testa. E subito il vecchio tornò sul libro che aveva davanti e ricominciò il suo racconto. Lesse del bambino affamato che non aveva niente da mangiare perché era povero. Così aveva deciso di rubare le più belle mele che avesse mai visto, luccicavano ed erano rosse e verdi. Formavano piramidi perfette davanti alla vetrina di una piccola bottega. Il bambino ne voleva prendere almeno quattro, per sé e per i suoi fratelli, ma aveva molta paura che i gendarmi lo arrestassero.
« I gendarmi, i gendarmi! » urlava Nunù.
« Vuoi che i gendarmi mettano in prigione un bambino? » Il vecchio interruppe la lettura.
Il matto annuì.
« E tu Poline? »
Lei alzò le spalle. Non la smetteva di guardare suo padre che adesso era fermo alla finestra.
L'orologiaio continuò la storia. Il bambino aveva camminato sul ciglio della strada per un po'"e quando non c'era stato nessuno davanti alla bottega, si era avvicinato sempre di più. Com'erano grosse le mele da vicino! In un secondo aveva allungato le mani, riuscendo a prendere solo due mele perché subito un ragazzo da dentro la bottega aveva urlato: «Al ladro! » e lo aveva acciuffato per una gamba facendo rotolare i frutti in mezzo alla strada e lui con loro.
« No! » strillò Nunù.
Il vecchio fece una pausa. Si levò gli occhiali che usava per leggere e li lasciò sul tavolo.
« Leggi, leggi ancora Gustave » disse il sindaco con il naso appiccicato al vetro.
Il vecchio si rimise le lenti agli occhi. Il bambino pregava il ragazzo di lasciarlo andare, di non chiamare i gendarmi perché l'avrebbero messo in prigione. Le gambe si dimenavano e i pantaloni bucati si inzuppavano di fango e sterco di cavallo mentre le mani grattavano la ghiaia della strada. Poi il bambino si calmò perché il ragazzo che lo aveva acciuffato disse a un signore che era accorso di prendergli un'altra mela dalla piramide. « La bottega è mia, e oggi mi sento molto generoso » disse il ragazzo. Il signore ubbidì perplesso e il ragazzo porse la mela al bambino. Lui prima la fissò, poi la mise dentro la tasca.
« Perché l'ha catturato e poi gli ha dato la mela? » domandò la zoppa.
« Continua Gustave, continua ancora» mormorò il sindaco.
E lui riprese a leggere. Il ragazzo disse al bambino che se lo avesse aspettato lì gliene avrebbe portate delle altre. Così lui aspettò davvero, mentre il signore che era accorso gli diceva che quella era proprio la sua giornata fortunata e che faceva bene ad aspettare le mele per i suoi fratelli.
L'orologiaio tossì e alzò gli occhi al matto che se ne stava con la schiena dritta e le sopracciglia inarcate. La zoppa, a fianco, non si muoveva.
« I gendarmi! » fece il matto.
« No, Nunù » disse il vecchio mentre scuoteva la testa.
« I gendarmi arrestano il bambino! » ripeté.
« Continua Gustave. » Il sindaco stava a braccia conserte, appoggiato al muro.
Il vecchio si raschiò la gola. Non passò molto tempo che il ragazzo tornò con un sacchetto di carta pieno zeppo di qualcosa. Il bambino lo aprì e fu accecato dal rosso di cinque mele che luccicavano. Guardò i frutti, guardò il ragazzo e disse grazie per quel regalo a lui e ai suoi fratelli. Ma quando si alzò in piedi, il ragazzo aggiunse che mancava ancora un secondo sacchetto, quello per i suoi genitori e i suoi amici, doveva aspettarlo un altro minuto che lui sarebbe andato a prenderlo nella bottega. Il bambino lo attese proprio sulla strada, con il signore che lo fissava e gli diceva di non muoversi, che di giorni come quelli non ne capitano molti in una vita. Il ragazzo arrivò dopo poco con un sacchetto uguale al primo: il bambino lo aprì e il verde acceso delle mele lo costrinse a chiudere gli occhi.
« Adesso fermati Gustave » fece il sindaco. « Nunù, i gendarmi? »
Il matto ci pensò su. E fece di no con la testa, i gendarmi non ci sarebbero stati.
« Tu, Poline? »
Allora lei si girò di scatto verso la finestra. Sorrise a suo padre, fissò le sue labbra che avevano appena detto Poline. «Le mele sono il regalo...» disse.
Un angolo della bocca dell'orologiaio si sollevò. « Rileggo le ultime righe. »
Rilesse ancora del bambino che ricevette il secondo sacchetto dalle mani del ragazzo. Appena sbirciò dentro, il verde acceso delle mele lo colpì e lo costrinse a chiudere gli occhi. Ma quando li riaprì, vide due gendarmi affannati per la corsa che gli erano di fronte e gli stavano afferrando le maniche della giacchetta.
« No! » strillò la zoppa.
Subito quel rosso e quel verde uscirono dai sacchetti, si mischiarono al bianco sporco della strada mentre l'uomo e il ragazzo si guardavano e sorridevano soddisfatti.
« I gendarmi! I gendarmi! » Il matto scattò in piedi, si toccò il naso, poi si tuffò nella poltrona.
« I gendarmi » sussurrò lei incredula.
« Si » disse il sindaco.
« I gendarmi di R. sono buoni, vero papà? » domandò.
« Sono i più coraggiosi della valle e sono così bravi con la spada che se vogliono tagliano anche una carrozza intera in un sol colpo. »
« Non ci credo ! »
« La spada... » farfugliò il matto.
« E' la verità! E con la pistola colpiscono chiunque, anche se è così lontano che non lo vedono. E la vuoi sapere una cosa? »
Annuì.
« Cavalcano così veloci che per arrivare alla grande città ci impiegano il tempo di aprire e chiudere un occhio. »
Lei lo fece, un battito di ciglia. « Ma allora se ci sono loro nessuno ti fa del male... »
« Nessuno, e se sei in pericolo loro ti salvano subito. »
« Anche loro hanno catturato i bambini che rubano?»
« No, non ci sono bambini che rubano a R. »
« I gendarmi fanno male a Nunù e alla zoppa! » gridò il matto dalla poltrona.
« Non fanno male a Nunù perché Nunù non ha fatto niente di male » disse il sindaco.
« Si, i gendarmi fanno male a Nunù e alla zoppa » fece ancora il matto.
Il sindaco gli andò vicino. « Ti piacerebbe toccare la spada di un gendarme? »
Il matto sollevò la testa pian piano. Si guardò intorno, poi annuì. Restò con la bocca spalancata a quei baffi arricciati davanti a lui.
« E tu? » si rivolse a lei.
La zoppa lanciò un'occhiata all'orologiaio che continuava a grattarsi il mento. « Sì papà... a me piacciono i gendarmi. »
« Domani, allora » fece suo padre.
Il vecchio si voltò verso di lui, lo fece ancor prima che finisse la risposta. Lo fissò.
« Domani» ripeté ancora, mentre le grida acute del matto riempivano la stanza della finestra.
« Non vi distraete » disse l'orologiaio quando li vide ancora una volta con le orecchie rivolte al piano di sotto. In verità neanche il vecchio ascoltava quel che leggeva: le pagine erano parole vuote una in fila all'altra, perché in lui dal giorno prima c'era solo l'attesa. E così era stato per la zoppa e il matto, da quando il sindaco aveva fatto la promessa della spada loro non avevano fatto altro che aspettare il gendarme. Lei se l'era immaginato, forse era il ragazzo biondo, sarebbe venuto con Marie la bottegaia oppure assieme al gendarme moro con la voce grossa. Avrebbero bussato e suo padre li avrebbe accompagnati nella stanza della finestra. La zoppa aveva chiuso gli occhi e aveva visto le divise blu: erano cosparse di stemmi colorati sul petto, la spada luccicava ed era tutta d'argento. Il cappello, con la punta che pendeva da una parte aveva la spiga azzurra appuntata davanti. Se lo sarebbero tolto e magari l'avrebbero fatto provare a Nunù. La mattina lei si era alzata con quell'immagine ancora davanti: il cappello che scivolava fino agli occhi del matto. E subito aveva saltellato verso il vetro, Nunù era già lì. Avevano salutato Marie e il maestro delle campane che camminavano nella piazza, poi avevano aspettato. Ma loro, i gendarmi, non si erano avvicinati alla casa del sindaco. Neanche ora che suo padre continuava a ricevere gli abitanti di R. al tavolo di legno nero.
« Maestro Gustave? »
Il vecchio smise di leggere. Si sistemò gli occhiali sulla punta del naso e la guardò da sopra la montatura.
« Cosa c'è Poline? » disse sospirando.
« Non arriva.»
« Chi non arriva? »
« Il gendarme! » strillò il matto.
« Dobbiamo finire ancora due pagine. »
« Papà ieri ha detto che... »
« Avranno avuto da fare con qualche bambino che rubava. »
« In paese non ci sono i bambini che rubano. »
« Poline? »
« Cosa c'è maestro Gustave? »
« Basta. Leggiamo, adesso. »
Lei prese un gomitolo e lo girò, lo girò tra le mani finché il filo uscì dal groviglio.
Il vecchio avvicinò il libro al viso. Ma non lesse, osservò Nunù che si agitava lì accanto. Si toccava il naso e sobbalzava sulla sedia. «Arrivano i gendarmi, arrivano!» esclamava a voce bassa.
Alcuni passi salivano i gradini.
La zoppa fissò l'orologiaio che si tolse gli occhiali e si voltò al corridoio. « Papà » fece lei ancor prima di vederlo.
Il sindaco sorrideva. Era molto elegante, con il cravattino ben annodato e la camicia bianca abbottonata ai polsi. La catena dell'orologio attraversava un fianco del panciotto scuro. In testa, il cappello rigido gli segnava d'ombra metà della fronte. « Andiamo » disse serio.
Il vecchio s'incantò su di lui. Non gli toglieva lo sguardo di dosso. Si grattò la nuca e si alzò in piedi, gli andò vicino. «Jerome. » Lo prese per un braccio e lo condusse fuori dalla stanza.
Lei ascoltava. Bisbigliavano ma le parole correvano dappertutto. « No, Jerome. »
« Gustave, è tempo. »
« Jerome, guardami...» L'orologiaio fece una pausa. «Non puoi, è troppo improvviso, è un passo troppo grande per loro. »
« Capiranno. »
« Jerome, ti prego. »
« Stammi vicino Gustave, vicino. » Il sindaco camminò fino al tavolo dei gomitoli: « Vestitevi eleganti che poi usciamo ».
Il matto si aggrappò al braccio della zoppa.
« Dove andiamo? »
« Dai gendarmi. Metti il vestito verde. Metti quello, ti fa elegantissima. »
Fu allora che la porta della camera di sua madre si spalancò.
« Odette, porto fuori i bambini » disse il sindaco tutto d'un fiato.
La madre fissò lui, poi l'orologiaio e la zoppa. «Li porto fuori...» ripeté la donna.
« Non puoi. Non puoi permettertelo, lo sai, lo sai... »
Il matto si rannicchiò sulla poltrona. L'orologiaio prese la zoppa per un braccio e la strinse a sé.
« Posso, adesso posso. »
« Per l'amor nostro, per l'amor di Dio... No, non puoi. » La voce diventò calma.
« Posso. »
« Noooooo! » Lei si buttò ai suoi piedi. Si contorse, afferrandogli le scarpe lucide. La camicia da notte le salì fino a metà della coscia sottile che quasi non c'era più, e i capelli lunghi e radi le coprirono il viso. « Non puoi, non puoi, non puoi » gemeva. Si rialzò e andò dalla figlia e la tenne stretta: «Così le farai del male, Jerome! » Si accasciò e i sussulti le scuotevano la schiena curva.
« Mamma. » La zoppa le andò vicino, le accarezzò una spalla. «Mamma, io voglio andarci. Non ci sono mai stata fuori. Voglio andarci... »
Suo padre si piegò e a fatica tirò su la donna.
« Non capisci! » Lei lo schiaffeggiò mentre veniva ricondotta in camera. «Le faranno del male... »
La zoppa fissò la porta che rimase chiusa per poco. Lui ritornò e disse ancora: « Il vestito verde e tu, Nunù, questo... » Andò alla cassapanca, ci rovistò dentro. Tirò fuori dei calzoni scuri e una vecchia camicia ben mantenuta.
« Tieni. »
Il matto inclinò il viso e spalancò la bocca. Strappò i vestiti dalla mano dell'uomo e corse per la stanza. Si fermò: « Gli uomini fuori guardano Nunù ».
La zoppa si strinse contro il vecchio. «Papà, è vero che mi fanno del male se esco?»
« No, nessuno ti farà del male. Ma adesso mettiti quello verde, quello con i fiori rossi e gialli » fece mentre spogliava il matto della maglia larga.
« Papà...»
« Jerome.» L'orologiaio lo guardò. E lui lo stesso, con Nunù che si grattava il petto nudo.
« Gustave, stammi vicino. »
Il vecchio diede un'occhiata al di là del vetro. Lo sguardo di chi attraversava la piazza andava sempre in cima alla torre, all'orologio che diceva le quattro e dieci del pomeriggio.
« Papà, è diventato corto » disse la zoppa e si mostrò. Il vestito le arrivava sopra le ginocchia. Si vedevano tutte e due le gambe, il polpaccio tondo e grande accanto a quello smilzo, il piede curvo come un ramo secco a mezz'aria.
« Sceglilo tu allora, ma fai veloce. I gendarmi ci aspettano. »
La zoppa corse nella sua camera. Si chinò sul catino e si strofinò di acqua fresca le guance. Poi con un balzo raggiunse l'armadio, toccò ognuno di quei tessuti appesi in fila. Sfilò la gonna blu e la maglia bianca. Le indossò e la stoffa scura cadde fino in terra, coprendo anche il piede forte che chiuse nella scarpetta chiara, quella con le stringhe nere che aveva messo solo una volta, per guardare la grande festa. Fissò lo specchio: dallo chignon in cima alla testa fuggivano pochi ciuffi che finivano sul viso. Gli occhi, grandi e neri, erano lucidi e brillavano. Continuò a guardarsi mentre con una mano tastava sul ripiano del comò. Lo trovò al primo colpo: il cappello azzurro. Seguì le dita mentre lo posarono sulla testa, lo spinsero appena. Sorrise e vide riflessa la fessura tra gli incisivi. Per ultima tenne la spilla di fiori d'argento: l'appuntò sul cuore, un luccichio che l'accompagnò fino al corridoio.
Lì Nunù aspettava, con le maniche risvoltate e i pantaloni che si fermavano dentro gli stivaletti. Aveva la bocca dritta, e il suo sguardo andava in fondo alla scala.
« Guardano » diceva con la voce che un po' tremava.
« Venite » fece suo padre dal piano di sotto.
Scesero il primo gradino e la porta della camera di sua madre si aprì. Nunù si aggrappò subito al corrimano e arrivò al tavolo di legno nero. La zoppa rimase ferma per un istante. Si voltò e vide l'occhio di sua madre che non si muoveva, dritto verso il suo viso. Sbatté una volta e tornò a sgranarsi mentre si velava di lacrime che non cadevano.
Un passo e i muri della scalinata l'avvolsero e la guidarono fino al pavimento ruvido della cucina. Suo padre si accovacciò e l'abbracciò. « Andiamo » disse.
Il primo che uscì fu proprio lui, il sindaco. Poi il vecchio con la sacca sulla spalla. Il matto precedeva la zoppa. Teneva i polsi uniti appiccicati al petto. Cantava. La sua voce si bloccò, come le sue gambe, un attimo prima di calpestare i ciottoli della piazza. Lei ci finì contro.
« Gli uomini guardano Nunù » disse e fece per tornare indietro.
« Andiamo dai gendarmi, i gendarmi Nunù. » La zoppa gli accarezzò i capelli.
« Guardano anche la zoppa. »
« Andiamo, ci fanno vedere la spada » disse lei.
Allora lui si tappò le orecchie e veloce pestò con gli stivaletti su due ciottoli. La luce lo colpì e subito colpì anche la zoppa.
Chi passava rallentò, li guardò fermandosi.
Il matto si nascose dietro la schiena del vecchio.
« Dove sono i gendarmi papà? »
« Per di là» e indicò la via che nasceva accanto alla torre.
Camminarono e suo padre le strinse la mano mentre la piazza si mise a bisbigliare.
Nunù schiacciò il viso contro il fianco dell'orologiaio. Fu lui a condurlo fino alla torre, perché il matto adesso era come cieco e pensava solo a muovere le gambe.
« L'orologio, l'orologio!» esclamò lei ed ecco che allora lui aprì gli occhi e disse:
« Din don...»
La zoppa si fermò, restò sull'unica gamba a prendere fiato e a sistemarsi la stampella che le raschiava l'ascella. «Aspettatemi» disse e vide suo padre fare due passi indietro.
Gli tese le braccia mentre saltellava avanti, gli si buttò addosso, si abbrancò alla sua vita e strinse, strinse forte.
Allora il sindaco la prese in braccio. La fece sedere sulle spalle. Entrarono nella via dell'Arco così. Da là in alto, la zoppa fissava il matto che avanzava e oscillava. La testa di Nunù si voltava sulla fila di alberi che costeggiavano la strada, sui sassolini che schizzavano dai suoi piedi, su chi sfilava ai lati e non si staccava da loro quattro. Nessuno si distolse. « Guardate » dicevano quelle voci sussurrate. « Guardate. »
L'Arco che prima assomigliava a un piccolo anello lontano, ora era una grande volta ocra. E le due sagome blu in miniatura si erano trasformate in due gendarmi che marciavano avanti e indietro. Si avvicinarono, Nunù non smise di guardarli. Quando fu loro vicino, aspettò che il sindaco lo superasse e gli restò alle calcagna.
« Salve » dissero i gendarmi sbattendo i tacchi e alzando la mano.
Il sindaco accompagnò la zoppa a terra. La gamba forte scricchiolò nella ghiaia e per un istante lei fu costretta ad appoggiare il piede curvo e a sostenersi con la stampella. Sentì un profumo di aria pulita e di erba. La fece starnutire e poi le solleticò il naso per tutto il tempo che un vento fresco provò a portarle via il cappello. Le pareva di volare in quel vento e aprì la bocca, come a masticarlo.
« La spada! » Accanto c'era Nunù, il palmo premuto alla bocca e i saltelli che lo scuotevano.
« Avete visto Pierre? »
Il gendarme di destra venne avanti. L'altro occupò il centro dell'Arco da dove partiva la strada che si perdeva nel muro verde e grigio della grande montagna. Non riuscivano a distogliersi dalla zoppa e dal matto. «Era qui un momento fa, forse... »
« Salve sindaco. » Pierre parlò e i suoi occhi erano tutti per la zoppa. Si tolse il cappello.
« Buon pomeriggio Pierre, stavo cercando te. Ti spiace seguirmi nella stanza delle Decisioni? »
« Io... sindaco?» balbettò.
« Solo un favore. »
Il vecchio accompagnò la zoppa e il matto che entrarono per primi. Il gendarme chiuse la porta.
« Questa è Poline. E lui è Nunù. »
« Salve » disse Pierre. Il suo sguardo scivolò fino alla gonna di lei.
La zoppa spinse la calza su, ancora più su.
Il matto si appiccicò alla pancia del vecchio.
« Pierre, vorresti mostrarci la tua spada? »
Nunù fissava l'arma nella custodia d'argento.
Il gendarme appoggiò il cappello sul tavolo, a fianco dello stemma di R. « Io mi chiamo Pierre » disse. « Ti piacerebbe vederla? » Si rivolse al matto mentre toccava la custodia della spada.
« Nunù, Nunù » lo incitava l'orologiaio.
Ma lui disse: « Il gendarme porta in prigione Nunù » e schiacciò il viso contro di lui.
Il ragazzo sorrise. « Non ti porto in prigione. » Sfilò la spada e gli andò vicino. « Tieni. »
Lui la spiò con un solo occhio. Brillava. Allungò un braccio, piano piano. La toccò, strinse l'impugnatura assieme alle mani del ragazzo. «La spada! » gridò.
Pierre si avvicinò, andò al posto del vecchio e da dietro guidò il matto a maneggiare la lama. Insieme colpivano e scoccavano, si paravano in difesa e affondavano il colpo. E Nunù rideva e faceva versi e strilli senza fine.
« Uccidiamo quel mostro! » diceva Pierre. «Fatti sotto mostro! »
« Nunù è forte adesso ! » disse il matto. « Il mostro ha paura di Nunù » e prese con due mani la spada e la lama era un bagliore che affettava il vuoto. Si dimenava, si piegava e saltava, corse tra le sedie e in fondo alla stanza delle Decisioni con Pierre appiccicato dietro.
« Bravo Nunù! Hai ucciso il mostro » disse quando il bambino si fermò per riprendere fiato.
« Bravo Nunù! » dissero la zoppa e il sindaco. « Nunù ha ucciso... » Il matto respirò. «... Ha ucciso il mostro. » E si mise ad abbracciare chiunque.
« Sei un gendarme anche tu adesso. » Pierre riprese la spada e la rimise sulla custodia.
« Nunù è un gendarme! » ripeteva il matto, e saltellava attorno al tavolo guardando la sua mano che adesso era vuota ma che aveva appena stretto la spada d'argento di un gendarme. Poi alzò lo sguardo e scorse il grande crocifisso appeso sulla parete. Si ammutolì, passò tra le sedie e arrivò sotto i piedi del Cristo. Allungò una mano e li toccò, la ritrasse e di nuovo li sfiorò.
L'orologiaio lo raggiunse.
« Dorme » disse il matto.
« Si » fece il maestro delle campane.
« Hanno messo i ferri nei piedi e nelle mani. Chi ha messo i ferri? »
Il vecchio provò a portarlo via ma Nunù si scostò.
« Chi ha messo i ferri nei piedi? »
« Gli uomini. »
Allora il matto si attaccò al chiodo, lo tirò e il Cristo si inclinò da una parte. « Nunù toglie il ferro dal piede! » E iniziò a tirare con tutte le forze. «Il ferro fa male! Nunù lo toglie! »
L'orologiaio lo fermò. « Non gli fa più male » disse e scostò il matto che non si staccava dal crocifisso. «Non gli fa più male adesso...» Lo condusse fino al gendarme che si era inginocchiato di fronte alla zoppa.
Lei non diceva una parola, fissò Nunù che ancora aveva il viso rivolto al Cristo.
« Ciao Poline » disse Pierre.
La zoppa pensò alla vigilia della grande festa, quando lo aveva visto parlare con il maestro delle campane. « Salve. »
Il gendarme si tolse una spilla tonda dalla giacca. L'appuntò all'elastico della gonna di lei, mentre con le dita tremava: era di ferro rossastro, con un filo di oro al centro.
La zoppa era seria. « Grazie signore. » Poi guardò suo padre.
« Quella serve a lui » disse il sindaco sorridendo. Accarezzò le dita della figlia. Poi prese la spilla, la sfilò e la fissò di nuovo alla giacca di Pierre. « Abbiamo due nuovi gendarmi oggi » disse e si sistemò il cappello in testa.
« Nunù e la zoppa sono i gendarmi! » gridò il matto dal centro della stanza.
Il gendarme biondo lo salutò sbattendo i tacchi.
«Aiuto! » fece Nunù e si nascose dietro la prima fila di sedie.
La zoppa tirò un lembo della camicia di suo padre: «E gentile Pierre... »
Il sindaco annuì, e in quel momento il gendarme biondo lanciò un'occhiata al vecchio. Lui rispose, e scrollò il capo.
« I gendarmi portano i bambini in prigione. » Nunù puntò il dito contro il ragazzo biondo.
« Matto che non sei altro » disse l'orologiaio cercando di tenerlo fermo.
Da fuori un vociare che avanzava li fermò tutti. La zoppa fece un balzo verso suo padre.
« Andiamo» disse il sindaco mentre la prendeva in braccio.
Padre Carl fu il primo che vide. Parlava con i due gendarmi vicino all'Arco.
La zoppa guardò il prete che si affrettò a raggiungere il maestro delle campane. Gli andò di fronte e cominciò a bisbigliare e a muovere le mani sotto la veste.
« Che succede? » domandò suo padre portandola vicino al prete.
« Jerome, a tanto sei arrivato. »
Il sindaco fece fare alla figlia un passo avanti. « Questa è mia figlia Poline. »
Padre Carl la guardò e la sua bocca per un attimo sorrise.
« Buonasera signore » disse lei e si appiccicò al fianco del padre.
Il prete la fissò. Alzò la testa. « Dio ti punirà. »
«Mia figlia ha appena conosciuto Pierre... »
« Cadrai in disgrazia Jerome. Ancora di più di quanto tu lo sia già. » Si rigirò il crocifisso tra le mani. « Le regole di Dio vanno rispettate. »
« Il mio Dio ha regole diverse. »
« Papà » piagnucolò la zoppa.
« Andiamo » fece il sindaco al vecchio.
La zoppa si sentì prendere. Salì lassù, al collo di suo padre e mentre si allontanava aprì la mano al gendarme , biondo.
« Guardano Nunù, gli uomini guardano Nunù! » diceva il matto e l'orologiaio lo trascinava e quasi lo sollevava.
C'erano occhi che scrutavano. Occhi severi e curiosi, appoggiati su di loro. Frecce appuntite scagliate da ogni parte. Colpivano, andavano a infilzarsi sul viso di Nunù e sulla gamba forte di lei. E la trapassavano, una volta, due volte e ancora là in basso, dove finiva la gonna blu. Anche la campana là in cima li spiava, chiusa nella sua gabbia di ferro. I brusii tacquero, poi ripresero. Erano bisbigli, strepiti, si avvicinavano, erano soffi che li sfioravano.
Il sindaco si affrettò, la portò via, con il respiro che si faceva pesante man mano che la piazza si avvicinava. Il vecchio era avanti, lo aspettò un istante con Nunù che lo stringeva al collo. Insieme costeggiarono la piazza come faceva Marie la bottegaia, passando a fianco del portone della torre. Poi si bloccarono. Lei alzò il viso, lo abbassò di scatto, schiacciò le palpebre e sentì suo padre che quasi correva.
« Aiuto » gridava Nunù.
Avrebbe voluto tapparsi le orecchie, sorde per sempre, ma le mani tenevano stretto il collo di suo padre e non volevano lasciarlo. Portò la gamba debole più in alto che poté, la fece salire finché iniziò a tremare. Una voce di donna a fianco continuava a parlare tutto d'un fiato e ora un uomo e ancora la donna. Suo padre disse, disse di nuovo e poi basta. Ci fu silenzio, all'improvviso.
« Jerome, tornate dentro! » Riconobbe la voce di Marie.
L'orologiaio si fece da parte e il sindaco girò la chiave nella serratura arrugginita. In un istante il profumo della cucina li avvolse, assieme al fresco dei muri. E subito lei vide suo padre che si segnava le spalle e il petto, gli occhi chiusi e le parole mute sulle labbra.
Dal giorno della spada e del gendarme il matto non era più voluto uscire. Viveva sulla poltrona, si accucciava tra i due braccioli e si lasciava sprofondare sul grande cuscino verde dove mangiava e dormiva. Ogni tanto saltava in piedi e cantava.
« Nunù è un gendarme! » Ma al vetro restava poco, solo per guardare il maestro delle campane che apriva il portone della torre, e per il gendarme biondo, che tutte le mattine lo salutava agitando il cappello. Non era voluto più uscire, Nunù il matto. Si era messo a gridare quando il sindaco gli aveva chiesto di accompagnarlo in fondo alla via delle botteghe. E a cantare, appena la zoppa gli aveva detto della scuola.
« Nunù, papà ha detto che ci porta dai bambini della scuola! »
Cantava e diceva di no, e la voce si mischiava ai lamenti che fuggivano dalla camera da letto.
« Non ci vuoi venire dai bambini? »
« I bambini guardano » disse e scomparve nella poltrona verde.
Così alla scuola c'erano andati solo lei e suo padre. Il prato era ricoperto dalle mantelline rosse e dalle casacche bianche, dagli strilli e dalle risa dei bambini che giocavano. La zoppa avrebbe voluto tanto infilare la testa tra le sbarre del cancello, magari entrare solo un po'"dove i sassi finivano e iniziava l'erba. Ma il maestro delle campane le disse dell'albero che cresceva lì vicino, di fondersi con il suo tronco per vedere meglio. Allora restò lì, accucciata, con la guancia che diventava corteccia e con suo padre accanto che le spiegava ogni cosa. Si porse appena, quando l'orologiaio e il maestro dalle gambe corte batterono le mani. Subito i bambini rientrarono e lei li salutò uno a uno, come se loro la potessero vedere. E a tutti sorrideva, mordendosi le labbra. « A presto Marcel, a presto bambina bionda, a presto » sussurrava mentre ognuno di loro tornava dentro, la scuola di nuovo silenziosa. «A presto» disse ancora e guardò in alto, la finestra della stanza dove il maestro delle campane insegnava. E subito il sindaco la sollevò, la prese in braccio per portarla via.
Vedeva R. dalle braccia di suo padre. Qualche volta la zoppa lo chiedeva e allora la sua gamba toccava terra e camminava assieme alla punta rovinata della stampella. Ecco, un passo alla volta e tanta fatica, e chi la incontrava rimaneva impressionato da quel camminare maldestro.
Lei aveva chiesto solo della scuola. La scuola, da lontano, dietro l'albero. Ma il sindaco l'aveva guidata in ogni strada dentro l'Arco di R. E ogni volta il silenzio di sua figlia era pesato sulle spalle di Jerome come montagne, gli aveva rallentato il passo, gli aveva bloccato i piedi e le gambe. E così lui l'aveva condotta dove di occhi insistenti non ce n'erano più. L'aveva riportata nella stanza della finestra. E lì, davanti al vetro, le aveva detto: « Mi dispiace ». Ma lei non si era voltata neppure. Nascosta dalle tende, lo sguardo già alla piazza che da lassù ci stava quasi in una mano.
Così la zoppa non si mosse più dalla casa del sindaco. Raccontava della scuola a Nunù e di come ci si divertiva nel giardino. Il matto drizzava le orecchie e domandava dei bambini ma anche dei blu e dei loro cavalli, delle vie, del maestro delle campane che suonava nella torre. Poi un giorno, mentre lei gli tagliava i capelli ruffi, la zoppa gli svelò il segreto che suo padre le aveva confidato il giorno della spada e del gendarme.
« Nunù, papà ha detto che il maestro ci fa suonare la campana... » Parlò tutto d'un fiato tenendo la voce bassa.
Lui fece un balzo sulla sedia.
« Ci fa suonare la campana, Nunù! »
« Gli uomini guardano. »
« Nella torre non ci sono gli uomini» e gli fermò la testa che ballava. « Papà ha detto che ci porta e nessuno ci vede. »
Nunù sollevò il mento. Socchiuse gli occhi. E sorrise: « Anche Nunù va nella torre?»
Lei annuì.
« La zoppa? »
Lei fece di sì.
« La zoppa e Nunù, din don din don! » E l'abbracciò. E la baciò. Due baci che schioccarono sulla guancia di lei.
« Non lo devi dire a nessuno » sussurrò la zoppa.
Il matto si portò una mano alla bocca, con il sorriso che cercava di uscire da quella presa. E i suoi occhi si incurvavano all" ingiù e ridevano, ridevano e luccicavano.
« Din Don ! »
Quel giorno il maestro delle campane non venne di pomeriggio. Arrivò di sera e non salì da loro. Rimase al piano di sotto, al tavolo di legno nero assieme a suo padre.
« Cosa volevi dirmi, Jerome? »
La zoppa si sporse dal muro e guardò in fondo alle scale. La luce della candela illuminava due bottiglie di acquavite e il braccio del vecchio che versava da bere.
« Si sono incontrati » disse suo padre.
Lei lo vide passare di fronte alle scale e andare allo scrittoio. Con un foglio tra le dita ritornò al tavolo.
« Chi si è incontrato? » Il vecchio tossì, poi prese il pezzo di carta.
La zoppa si scostò dalla parete. Saltellò nell'angolo tra la porta chiusa della camera di sua madre e il fazzoletto di muro grigio.
« Manca solo l'assenso di Marie... » mormorò l'orologiaio.
« Odette lo ha dato. »
C'era silenzio adesso. Soltanto il russare del matto leggero, lì sopra.
Il maestro delle campane continuò ancora: « Il nome di Odette è il secondo della lista, dopo quello del prete ».
« E stato Padre Carl a convocarli. Vogliono separare i bambini. Vogliono Nunù da un'altra parte. »
Lei portò i pugni stretti al petto, li strofinò.
« Quando si sono incontrati? »
« Ieri sera... Ho visto uscire Odette all'improvviso, da giorni non lo faceva. L'ho seguita fino alla casa del prete. »
La zoppa ripensò al pomeriggio, quando due filatrici erano passate a trovare sua madre.
« Dal prete? » chiese l'orologiaio.
« Da lui. Questa mattina ho ritrovato il foglio sul tavolo. Vogliono una risposta. »
I pugni stretti della zoppa si bagnarono e quei gemiti rimasero strozzati in gola.
« Dove lo vogliono portare? »
Ascoltò suo padre appoggiare il bicchiere sul ripiano. Disse qualcosa, la voce era confusa, rideva e le parole erano impastate di saliva e versi strani. « Non importa dove, rinchiuso dappertutto tranne che qui, nella mia casa. »
« Cosa risponderai? »
Bevve ancora. « Nessuno lascerà queste mura, nessuno. » L'aria uscì dallo stomaco e gli arrivò in gola. Ruttò.
L'orologiaio lo fissò.
« Gustave, ho promesso ai bambini che li farai suonare. » Suo padre sorrise mentre lei si asciugava il viso bagnato. Altra acquavite fu versata e quando cadde gorgogliò contro il bicchiere.
« Suonare? »
Annuì. E con il foglio ritornò allo scrittoio.
« Sarà un affronto che non sopporteranno, e stà sicuro Jerome...» tossì «... saranno gli ultimi rintocchi che ascolterai da sindaco. » Tossì ancora. « Ma se questa è la tua decisione, io ti accompagnerò. »
« Così sia allora » disse con la voce che quasi non si sentiva. « Così sia. »
Sua madre aveva ripreso a uscire, ma in casa non parlava più. Si muoveva di sera per la piazza, nel buio rotto dai lumi deboli, e la sua sagoma camminava assieme a quella della moglie del fornaio o da sola. Da dietro la tenda, la zoppa l'aveva vista: passeggiava e scompariva nella via delle botteghe con il passo svelto e la testa coperta dal cappello con in cima la farfalla di stoffa. Riappariva di notte, le gambe leste che la accompagnavano al portone di casa. Intanto R. dormiva, e anche il matto, che di giorno era sempre a fissare il portone della torre in attesa che si aprisse. «Anche Nunù e la zoppa suonano! » strillava mentre mostrava le dita della mano che segnavano i giorni che lo separavano dalla corda della campana.
« Quando leggerai bene » gli diceva l'orologiaio appena il matto cominciava a domandargli di suonare.
E lui leggeva anche dieci frasi di fila senza un errore. Poi tutta una pagina, e due, e tre. Faticava nelle esse che sibilavano tra i denti storti e gli bloccavano la lingua. Nunù aveva letto del bambino che aveva rubato le mele e che era in prigione, che non mangiava più, che stava per morire perché era malato e nessuno lo poteva guarire.
« Leggi ancora » ordinava il maestro delle campane.
Il bambino non morì. Venne salvato da una guardia del carcere che pagò un medico per aiutarlo e quando fu liberato lo stesso uomo promise di trovargli un lavoro. Così fece. Il bambino divenne uno spazzacamino della città.
« Anche tu potresti pulire i camini della grande città » disse il vecchio. « Nunù spazzacamino, ti piacerebbe? »
Lui scrollava la testa. « Din don » diceva. E continuava a leggere che meglio non si poteva e solo alcune volte si interrompeva per toccarsi il naso.
« Tre giorni e suoni la campana, Nunù. » Così gli parlò il sindaco quel pomeriggio. Lui si distolse dal libro, lo guardò e annuì con la bocca spalancata e i denti all'infuori.
Poi suo padre si rivolse a lei: « Anche tu, figlia mia ».
La zoppa fece di no.
« Cosa c'è? »
« Io non voglio suonare. »
« Perché? »
« Non mi piace la campana... Non voglio uscire. »
Suo padre le andò vicino. « Perché? »
« Non voglio suonare, deve suonare solo il maestro Gustave, solo lui. »
La prese in braccio e con lei addosso si sedette sulla poltrona verde. «Ma il maestro vuole che suoniate, vi insegnerà lui come fare. »
« Non voglio suonare io...Voglio rimanere qui, anche Nunù rimane qui. »
Il sindaco si voltò verso il matto. « E' vero Nunù? Non vuoi più suonare? »
« Gli uomini guardano » disse la zoppa prima che il matto aprisse bocca.
Nunù fissò l'uomo, fissò il cielo interrotto dai monti dietro la finestra. « Nunù vuole suonare » mormorò.
Lei appoggiò la testa sul petto di suo padre. « Si arrabbiano papà. »
Il sindaco la baciò sulla nuca, infilò il naso tra i capelli sciolti. Li respirò. Sapevano di fresco, di fiori. « Non ti devi preoccupare. »
« Mamma non vuole. Neanche loro vogliono. »
« Non ti... »
« Non vogliono vedere la gamba, non vogliono. » Sollevò il viso e si tirò su di un poco la gonna. La calza nera spuntò fuori e anche il polpaccio e l'osso sottilissimo. Mosse la gamba debole, una, due volte, e il piede curvo e rinsecchito sembrò per un attimo un serpente che sibilava dentro il cotone nero.
Suo padre le fece scendere la gonna fino in fondo. Le parole gli restarono incastrate una dietro l'altra e non uscivano più. Le mise una mano vicino allo zoccolo, dove non la toccava mai. Sentì gli spigoli appuntiti e aguzzi. Sentì la bruttezza. La strinse. « Mi dispiace. »
La zoppa gli afferrò un baffo che disegnava un cerchio sotto il naso. Lo lisciò tra le dita e lo stese fin quando non fu tutto lungo. Arrivava quasi a metà guancia. Cominciò a fare lo stesso anche con l'altro baffo. Li allungava e appena li lasciava loro tornavano ad arrotolarsi. Intanto osservava gli occhi di suo padre, senza gli occhiali erano lucidi e piccoli. Se ci guardavi dentro vedevi che erano tempestati di brillanti. Sotto avevano dei solchi grigi e le rughe che li circondavano erano linee disegnate da una mano che tremava. Fece correre le dita sul naso, lo schiacciarono appena sulla punta, poi arrivarono tra i capelli lisci e ordinati, li scompigliarono un po'.
« Mi dispiace. »
Restarono uno abbracciato all'altra mentre il profumo saliva e gli occhi del sindaco socchiusi si velavano.
« Ti voglio bene. Poline. »
Fu davvero il matto a suonare la campana di mezzodì. Din don fece, e i rintocchi scesero su R. come zampilli di pioggia dal cielo. Era entrato nella torre Nunù, era lì dentro. Quella mattina l'orologiaio l'aveva accompagnato giù per le scale, fino al piano di sotto. Il sindaco l'aveva salutato, ma il matto aveva continuato a guardare solo lei, ferma nel corridoio. « Anche la zoppa din don, anche la zoppa » aveva continuato a dire, ma la testa di lei gli aveva fatto cenno di no.
Dal vetro l'aveva visto arrivare al portone della torre e toccarsi il naso mentre si guardava attorno: la piazza lo fissava. Così Nunù era fuggito, aveva immerso la testa, le braccia, le gambe nel buio della torre. Ma prima di essere inghiottito da quel nero, il matto aveva tirato fuori ancora una volta la mano, per salutarla.
Tornò al tramonto.
« Perché siete rimasti così tanto nella torre? » chiese la zoppa.
« A Nunù piace la torre! »
« Non voleva andarsene » disse il vecchio. « Non c'è tuo padre? » domandò poi.
Lei scosse la testa.
« Forse è all'Arco » disse lui scendendo le scale. Poi la porta del piano di sotto sbatté leggera.
« Din don, Nunù ha fatto din don! » Agitava le braccia in aria mentre stringeva la fune invisibile.
La zoppa gli saltellò vicino e lui l'abbracciò. «Non dovevi suonare, non dovevi! » gli fece nell'orecchio con quella stretta che le soffocava le parole.
Quando la lasciò, lei provò a scostarsi e allora il matto le prese una mano e la portò al vetro. Alzò il dito a indicare la torre e intanto raccontava della campana che è alta come un uomo e pesa come cento.
« Cosa c'è nella torre, Nunù? Cosa c'è dentro? »
« Il letto del maestro delle campane! »
« Il letto? »
« Il maestro delle campane dorme nella torre e anche i topi dormono nella torre! » Il matto si buttava sulla poltrona un secondo e in un secondo era in piedi. Le girava intorno e mimava il gesto di tirare la campana.
« La casa della zoppa e del matto è quella delle formiche » e mostrava che l'aveva vista così dall'alto.
La zoppa si teneva una mano contro le labbra e i suoi occhi diventavano sempre più grandi. Chiedevano e chiedevano. Nunù raccontava della campana, che bisognava tapparsi le orecchie per non rompersele perché era come l'urlo di tutti i lupi del bosco. Poi le disse del foro.
« Che foro, Nunù? »
« Nella torre! » Andò al tavolo e sul foglio lo disegnò. Un rettangolino proprio sotto al quadrante delle ore. Poi lo mostrò alla zoppa che subito corse alla finestra. Lo cercò.
Il matto segnava con il dito: « Il foro ».
« Dov'è il foro? »
« Gli uomini non guardano Nunù nel foro, Nunù guarda gli uomini! »
La zoppa continuava a cercarlo, ma non lo vide perché la notte confondeva ogni cosa. In quel momento il matto si accucciò sulla poltrona, le pagine del libro davanti al viso. E lei gli rimase seduta accanto finché la porta al piano di sotto si aprì.
« Papà!» sussurrò. Saltellò in corridoio, guardò in basso, giù per le scale. Non vide nessuno e in un secondo raggiunse la finestra.
Lì intorno tutto era fermo e senza rumori.
La zoppa si voltò al corridoio, un po'"alla volta: così la vide arrivare, sua madre, lo sguardo rivolto a lei. Il suo viso era rigato di lacrime e le mani tremavano in grembo e stringevano il cappello bianco.
« Mamma...»
« Non ho potuto far niente, non ho potuto. »
Un attimo, e la donna non ci fu più. La porta della sua camera si chiuse. Tornò il silenzio, un silenzio che avvolse la casa e durò tutta la notte. Un silenzio mai rotto, neanche da suo padre, che non tornava, che non tornò più.
Il sindaco si era addormentato. Così diceva R., addormentato. Così le disse il maestro delle campane la mattina accarezzandole la guancia mentre la stringeva a sé e non la lasciava. Si era addormentato nella stanza delle Decisioni. Aveva chiuso gli occhi, senza riaprirli più.
« Aveva tanto sonno » sussurrò il vecchio alla zoppa con la fronte disegnata di pieghe.
Lei non si muoveva, stava con il viso al pavimento sporco. Non guardava l'orologiaio e Marie la bottegaia, non guardava sua madre che dal corridoio aveva fatto solo un passo avanti. Neanche Nunù, che si era messo le mani sugli occhi e si cullava sulla poltrona verde.
« Papà dorme » faceva il maestro delle campane.
« Dorme » ripeteva lei a sé. « Dorme. »
La zoppa sentiva la gente entrare al piano di sotto, sedersi al tavolo di legno nero e bisbigliare con sua madre. Li sentiva appena, poi li vedeva che uscivano, vestiti di nero. Si facevano il segno della croce e prima di prendere la via delle botteghe, si voltavano verso la casa rossa del sindaco, e si segnavano ancora.
Marie le aveva detto del giorno dopo che suo padre si era addormentato, quando la sera tutti gli abitanti erano passati nella stanza delle Decisioni. Erano andati a trovare il sindaco, che dormiva disteso in un letto bianco e cosparso di fiori secchi e lavanda.
Ma lei non l'ascoltava, teneva la testa al vetro che il vento fresco dei monti iniziava a scuotere. Quando la bottegaia finì, la zoppa le chiese quando si sarebbe svegliato. Lo domandò a lei, poi al maestro delle campane.
« Anche il papà di Nunù dorme » le diceva il matto.
« Il mio papà si sveglia fra poco! » rispondeva la zoppa e intanto i suoi occhi erano già diventati piccoli e rossi.
« Quando si sveglia papà? » domandò a sua madre.
Sua madre non rispose, le prese la testa e la portò sul suo petto. La tenne così, poi la guardò.
« Quando si sveglia? »
Odette si alzò e la zoppa la vide scendere in piazza e raggiungere Marie e Bulbon che l'aspettavano.
« Dove vanno? Dove va mamma? » Dal vetro si voltò verso il vecchio.
La luce della lampada andò al viso del matto, le gocce scendevano lente dalle palpebre schiacciate.
« Fanno il sindaco. »
« Il sindaco è papà! » E il pianto le ruppe le parole.
Allora il vecchio la portò a sé. « Poline... » le sussurrò mentre l'accompagnava nella sua camera. Si sedette sul letto, accanto a lei che aveva il respiro spezzato dal pianto. E lì le diede quello che le spettava, l'orologio d'argento di Jerome, la scritta sul coperchio che diceva « al decimo primo uomo di R. ».
La zoppa non disse niente. Lo guardò e basta. La fiamma della lampada faceva brillare il metallo liscio.
« E' tuo adesso. »
La sua mano lo toccò, lo strinse e il fresco dell'argento era dappertutto. «Papà...» disse.
Il pollice del maestro delle campane fece scattare la leva del coperchio.
« Non è mio, è di papà... » disse mentre lo lasciava sul comodino.
E l'orologio restò lì, quella notte e anche la mattina dopo. Restò lì finché dal vetro lei rivide suo padre nella piazza.
« Dorme » le disse l'orologiaio mentre l'abbracciava da dietro. Laggiù, suo padre. Dormiva davvero nel letto bianco di fiori, mentre le braccia forti lo appoggiavano al centro della piazza.
Suo padre, laggiù. E quando lo guardò, appena lo fissò tra la folla che lo circondava, sentì anche le mani del matto che le si aggrappavano addosso e la sua voce che diceva: « Il sindaco Jerome dorme ».
La zoppa strofinò le nocche delle dita al petto, una, due, tre volte, mentre il piede debole grattava senza fermarsi contro quello forte. Fu un attimo, corse nella sua camera. Nell'ombra tastò il ripiano del comodino, cercò dove l'aveva lasciato, nell'angolo. Lo trovò, era freddo, era liscio dappertutto se non per le lettere incise. Saltellò fino alla luce che entrava dal corridoio e lì lo osservò" bene. Poi lo avvicinò un po' al viso. L'argento fresco si schiacciò alla sua guancia. « Papà » sussurrò. E subito anche l'orologio cominciò a bagnarsi.
Il Consiglio decise. Decise per Saliou il fornaio, nuovo sindaco di R. Lo scelse con tutte le mani alzate compresa quella della madre della zoppa. Nessuna mano contraria, nessuna. Avrebbe lasciato il suo forno per guidare R., così diceva la regola del paese. Venne eletto il giorno dopo il funerale, fu Padre Carl a sollevare il braccio per primo e il fornaio si trasferì nella casa rossa due sere dopo, appena gli fu consegnato anche un orologio d'argento.
Il nuovo sindaco decise subito di convocare Gustave e gli disse che il matto sarebbe stato rinchiuso nella torre.
« Una disgrazia divisa è meno disgrazia » disse Padre Carl dopo che Saliou ebbe parlato.
« Nella torre? »
« Visto che al matto piace tanto tirare la campana... Che impari per bene. Sarà un tuo degno successore» sentenziò il prete. «Gli porterai tu da mangiare, ogni volta che andrai a suonare. »
« Non potrà stare sempre rinchiuso nella torre » disse il vecchio mentre guardava la madre della zoppa e subito il nuovo sindaco.
« L'ha fatto in casa e continuerà a farlo nella torre » ribadì Padre Carl.
« Questa volta non avrà con sé la bambina. Lasciate che viva con me. A lui basterà stare con me. »
Ci fu silenzio. Poi il sindaco decretò che l'unico posto del matto sarebbe stata la torre, e tutti annuirono.
Il Consiglio decise anche della zoppa. Sarebbe rimasta con sua madre nella casa in fondo alla via delle botteghe, la casa gialla che era stata dei suoi genitori prima che Jerome diventasse sindaco.
« Qualcosa in contrario, Odette? » le domandarono.
« No » rispose la donna. « Resterà con me, è mia figlia. »
« Voglio continuare a farle scuola » disse allora l'orologiaio. «Il bambino non c'è più, non può rimanere sola. »
Il Consiglio pensò. « Gustave potrebbe avere ragione » sussurrò la madre della zoppa.
« A patto che non esca » concluse Padre Carl.
« A patto che non esca » gli fece eco il nuovo sindaco.
« Non uscirà » disse la madre della zoppa.
Sul foglio le mani della zoppa strisciavano leggere. Le matite colorate raccontavano della torre alta e del bambino con i capelli ruffi e i denti storti che ci abitava. Quel bambino sotto un braccio teneva stretto un libro e con l'altro tirava la corda della campana, mentre l'uomo con la barba rossa lo stava a guardare.
Din don scrissero le mani della zoppa sopra ogni cosa. E sotto il cielo disegnarono una stradina lunga, stretta, che scivolava via piena di curve e si fermava là, dove una linea verde e un'altra la incrociavano: eccolo, il monte, ai suoi piedi la matita gialla ci colorò una casetta con un tetto marrone. E nella facciata ritagliò un rettangolo grande che restò bianco. Una finestra.
Le sue mani si fermarono un attimo, presero il colore rosa, lo accompagnarono nel rettangolo, e lo stesso fecero con il rosso e con il nero. Disegnarono una bambina là dentro, una bambina in piedi con i capelli lunghi scuri e una mantellina rossa sulle spalle. E con una sola gamba. Una bambina con lo sguardo che andava dall'altra parte del foglio, alla torre, al bambino con il libro sotto braccio e il viso tutto pieno di lentiggini.